La giornata degli stati generali dell’editoria dedicata ai direttori di giornale riassume bene le sfide che l’informazione ha davanti.

Gli interventi che pubblichiamo qui (necessariamente condensati, ce ne scusiamo con autori e lettori: errori e tagli sono nostri) danno un quadro fedele dei problemi, dallo storico quotidiano nazionale alla testata di provincia, fino alle piattaforme e all’agenzia di stampa della più grande azienda italiana (Eni).

Il sottosegretario Vito Crimi, tirando le conclusioni di una mattinata di confronto, ha risposto a molte delle questioni sollevate, iniziando a svelare qualche carta in vista della conclusione di questo lungo percorso di riforma che verosimilmente avverrà entro l’anno.

Il tema del giorno, un po’ a sorpresa, è stato il contratto giornalistico, oggettivamente fermo a realtà editoriali oggi quasi inesistenti. Non è un tema di governo, ha ammesso Crimi, ma editori e sindacato devono provare a riavviare un percorso.

«Il cambiamento non chiede il permesso, arriva», come in passato ha difeso l’idea di una «Netflix italiana delle news», degli incentivi pubblici agli abbonamenti digitali, della trasparenza sulla proprietà dei giornali.

Ha poi scagliato più di qualche freccia: contro i fondi per i prepensionamenti e contro i giornali in cooperativa, affermando che «l’informazione locale va sostenuta dallo stato ma non penso di sostenere un particolare assetto societario né l’idea “più vendi più soldi ti do”. Ti do il sostegno minimo per una redazione dignitosa. Dopo di che parte la competizione», ha detto.

Non a caso, questi due argomenti sono le colonne su cui poggia il sistema vigente e che tutela anche il pluralismo a livello nazionale, ad esempio con il manifesto.

Molto critico Crimi anche con l’Inpgi – descritto quasi come alla ricerca di un puro escamotage per salvare i propri bilanci – e con l’Ordine dei giornalisti il quale – scandisce – «è superato dai fatti, non funziona e non ha più senso di esistere».

L’ultima stoccata del sottosegretario è volutamente anonima (forse per i vertici della Fnsi con cui si incontrerà il 4 luglio?): «C’è qualcuno che sostiene che l’obiettivo mio e di Di Maio è abolire la categoria dei giornalisti. Abbia il coraggio di dirmelo in faccia. C’è troppa malafede contro di noi».

 

L’intervento/1
Il dovere di «battersi per i fatti»

RICCARDO LUNA

«Sono all’ultimo giorno da direttore dell’Agi. Ma voglio riportare qui l’esperienza costruita anche negli ultimi 1.001 giorni.

Come per il cinema, la musica e la letteratura, i supporti cambiano ma non finiscono i film, le canzoni, i libri. Anche nel giornalismo succede la stessa cosa. Cosa sarà dei giornali di carta o delle agenzie di stampa? Sono supporti o sono attività che non moriranno?

Tutti i dati ci dicono che il giornalismo è in crescita. Il Post ha assunto 20 ragazzi, fa giornalismo serio. Penso a Tpi, nato 9 anni fa, che è tra i primi siti italiani. Penso alla rete dei giornali locali di Citynews o a Fanpage, un giornale che si chiama come una pagina facebook, è tra i siti più letti d’Italia e ha vinto diversi premi giornalistici molto autorevoli.

C’è la crisi dei giornali ma non la crisi del giornalismo. I giornali sono baluardi della democrazia e non possono essere rottamati a cuor leggero.

C’è un eccesso di pessimismo riguardo ai giornali. Le fake news non sono un problema solo per chi le pubblica, sono un problema di tutti, della democrazia. Ma i giornalisti sono gli unici a «battersi per i fatti», come ha scritto l’ex direttrice del New York Times Jill Abramson.

Ci vuole tempo per spiegare le cose, ci vuole mestiere, ma è importante. Il citizen journalism, può aiutarci ma il giornalismo è il nostro lavoro. Il tema qui è che abbiamo perso la fiducia dei cittadini, questo è il problema, non la tecnologia.

La tecnologia ci aiuta a lavorare meglio ma non è l’obiettivo. L’obiettivo è rimettere i giornalisti in partita, al centro del campo. I politici per parlare non hanno bisogno di noi, dobbiamo dare un senso a quello che dicono e svelare le loro bugie.

La distanza tra i fatti e la percezione è sempre più ampia. Quindi dobbiamo batterci sempre per i fatti e solo per i fatti. Questa non è filosofia, è un modello di business.

Il desiderio di sapere come va il mondo è innato nell’umanità. A questo desiderio dobbiamo rispondere. Per i più giovani le notizie sono un flusso, hanno altri codici diversi dai miei, usano altre tecnologie, diverse dall’edicola o dal giornale cartaceo impaginato.

La tecnologie sono uno strumento ma la materia su cui lavoriamo sono le storie, come nella foto del papà affogato insieme alla figlia nel Rio Grande. Quella foto non l’ha scattata un algoritmo, ma un giornalista dell’Ap. Oggi i giornali devono decidere: chiudiamo o rilanciamo? Per me bisogna scegliere il coraggio».

(l’intervento è stato condensato per motivi di chiarezza e di spazio)

L’intervento/2
Il «giornalismo delle piattaforme»

ALBERTO MARINELLI*

«Negli anni ’90 vivevamo nella società dell’informazione, nella seconda metà degli anni 2000 vivevamo nella società delle relazioni, oggi viviamo in un nuovo paradigma, la «società delle piattaforme».

PRIMO PROBLEMA: Osserviamo il mondo che ci circonda a partire dalle piattaforme e nelle piattaforme viviamo: prendiamo un taxi, affittiamo una casa, ci informiamo, fotografiamo, raggiungiamo una località. Le «big five« (Facebook, Google, Apple, Amazon e Microsoft) non sono solo un problema economico, sono un problema per le modalità stesse in cui è organizzata la nostra esistenza.
La piattaforma elabora i nostri dati in maniera algoritmica e guida i nostri comportamenti, dandoci dipendenza.

SECONDO PROBLEMA: la piattaforma filtra i dati in nostro possesso («filter bubble»). La prima rivoluzione digitale in fondo era banale: era la dematerializzazione del prodotto e la logica client/server ma la gerarchia delle notizie era ancora immutata.

Oggi è cambiata completamente la circolazione digitale dei contenuti. Una parte del potere di definizione del mondo è affidata al fatto che i contenuti hanno una vita in cui le audience hanno un potere fondamentale. Una parte del potere è passata da un’altra parte. Le conseguenze sono: identificazione molto più labile con i media, competizione estrema con altri flussi informativi, disintermediazione da parte di politici, brand, celebrity. La gerarchia delle notizie è spazzata via: il «gatekeeping primario» (criteri di valore, razionalità, rilevanza) che sta alla radice del giornalismo è finito. Siamo in balia del «gatekeeping secondario», basato sull’amicizia e la circolazione.

TERZO PROBLEMA: il ruolo delle piattaforme è stare tra i contenuti e gli utenti, aggregare i due insiemi e assemblarli secondo proprie logiche. Filtrano in modo evidente ma segreto sia i contenuti che gli utenti a cui abbiamo accesso.

Dobbiamo «allevare» gli algoritmi ma il fenomeno delle «echo chamber» non è una sciocchezza. Sulle piattaforme ci troviamo sempre o quasi sempre in mezzo a persone che la pensano come noi. Il problema è che questo meccanismo è gigantesco, continuo, universale e generalizzato.

Che succede allora in un mondo organizzato così?

  1. La maggioranza degli italiani si informa tramite fonti algoritmiche (circa il 55%).
  2. Il divario generazionale si allarga.
  3. Il device utilizzato diventa decisivo: oggi ci si informa quasi sempre su mobile.
  4. È in forte crescita il fenomeno dell’informazione via chat, privata.
  5. Twitter serve per fare l’agenda ma la piazza pubblica oggi è Facebook.
  6. I podcast (news feed audio) sono in crescita fortissima.

LA «PLATFORM PRESS»

I media sono presenti su decine di piattaforme diverse e producono migliaia di post, che sono prodotti informativi autoconclusi, oggetti destinati alla piattaforma, non «link al sito». Bisogna conoscere precisamente come funziona quell’ambiente.

Conclusioni

  1. Le piattaforme sono ineliminabili. Vincono loro non perché sono cattive e potenti ma perché sono indispensabili per la nostra vita. È possibile ragionare su dati condivisi con gli utenti in nuovi tipi di piattaforme?
  2. Sono entità sovranazionali quindi non possono essere regolamentate a livello nazionale.
  3. Il giornalismo, proprio perché è importante, ha il dovere etico di usare le piattaforme in formati comprensibili a quelle community. Se vogliamo che qualcuno ci veda dobbiamo lavorare con quei linguaggi».

* Presidente del Corso di Laurea in Comunicazione Pubblica e d’Impresa Università la Sapienza Roma

(l’intervento è stato condensato per motivi di chiarezza e di spazio)

LA STAMPA
«Gli editori italiani devono confrontarsi»

MAURIZIO MOLINARI – direttore de La Stampa

Il direttore de La Stampa Maurizio Molinari ha sollecitato attenzione sostanzialmente su tre grandi problemi:

1. SCAMBIO DI INFORMAZIONI. Gli editori e i direttori di giornali italiano non comunicano tra loro. Siamo tutti in una fase di laboratorio, di marketing di contenuti e di metodi di vendita. Sarebbe fondamentale che condividessimo i nostri risultati in modo da poter migliorare tutti. O sopravviviamo tutti o moriamo tutti. O troviamo un nuovo modello di business entro i prossimi tre anni o i giornali sono morti, tutti. Se vogliamo essere un modello di democrazia avanzata dobbiamo mettere a sistema le nostre «fabbriche di contenuti».

2. NUOVI LAVORI E NUOVI CONTRATTI. I giornali non hanno più bisogno solo di giornalisti. Data analyst, marketing, etc. devono stare in redazione e non sono professionisti separati dai cronisti. Il contratto di lavoro dei giornalisti però non consente queste figure. Questo contratto giornalistico impedisce di avere dentro la redazione persone con quel background. I giornali non sono solo dei giornalisti, sono fabbriche di contenuto. Ma oggi non abbiamo la possibilità di assumerli. Non esiste un contratto adeguato.

3. GOVERNANCE DEI DATI. Serveuna legge che stabilisca quali contenuti devono essere tutelati e quali possono essere liberamente scambiati. Alcuni dati vanno protetti, altri no. In Italia non abbiamo neanche la legge. È un vulnus drammatico per tutti, perché non abbiamo contromisure verso chi opera a danno di altri o diffonde fake news.

BUONASERA TARANTO
«L’informazione locale ha bisogno di tempo e fondi»

VINCENZO FERRARI – direttore di Buonasera Taranto

A Taranto stiamo vivendo e abbiamo vissuto una situazione unica: la crisi economica, il dissesto del comune, l’esplosione della vertenza Ilva che è la più complicata vertenza industriale, sanitaria e occupazionale della storia repubblicana.

In questa realtà così complessa e drammatica, il mio giornale è l’unico dedicato alla città. A Taranto, dare un’informazione corretta per esempio sui dati sanitari è fondamentale. Invece intorno a noi c’è una pirateria informativa incontrollata e lo spontaneismo del cittadino allarmato che rilancia dati inattendibili o parziali.

Un giornale può sempre sbagliare ma la sua attendibilità è richiesta dalla legge e dalla deontologia.

Abbiamo bisogno di governare questa fase di transizione, ma il problema è che il web non funziona come mezzo di sostentamento.

Se vogliamo trovare il modello di business occorre tempo e sostegno. Se ci vengono sottratti entrambi ci saranno effetti devastanti per la democrazia.