Quando si affacciò sulla scena pubblica, ad appena 17 anni, si faceva chiamare Tommaso Pignatelli, lo pseudonimo con cui firmò un volume di sonetti e che usava sul palcoscenico. Era appassionato di teatro, amico di Patroni Griffi e La Capria, attore. Era il 1942 e Giorgio Napolitano, come tutti nella sua generazione, faceva parte dei Guf, i Gruppi Universitari Fascisti. Già l’anno seguente li aveva abbandonati per avvicinarsi alla sinistra. Avrebbe preso la tessera del Pci nel 1945, per essere eletto deputato nel 1953. Al momento dell’uscita di scena, nel 2015, lo chiamavano re Giorgio: era stato in effetti più un monarca che un presidente.

NAPOLITANO È STATO «il primo» una quantità di volte. Il primo comunista a ottenere il visto per una serie di conferenze negli Usa, nel 1978: Kissinger lo definiva «il mio comunista preferito». Il primo tesserato del Pci a occupare le poltrona che la Dc non aveva mai voluto mollare nella prima Repubblica, il ministero degli Interni. Dal Viminale ha legato il suo nome alla legge Turco-Napolitano, discutibile allora anche se per i criteri di oggi quasi un modello. Il primo comunista promosso a primo cittadino e poi il primo presidente a essere rieletto, onore che avrebbe preferito evitare e che considerava dannoso per la democrazia. Rimase infatti in carica meno di due anni.

Nelle apologie sfugge spesso un altro e meno brillante primato: Napolitano è stato forse il primo dirigente di un partito comunista a proporre di abbassare i salari operai per fronteggiare la crisi in nome dell’«interesse generale». Era il momento della solidarietà nazionale, 1976-79. Napolitano, figlioccio politico del leader della destra comunista Amendola, il «Giorgino» e il «Giorgione», era responsabile economico del Pci e in quella veste si trovava in prima linea nell’esperienza di alleanza con la Dc, primo passo verso il «compromesso storico» del segretario Enrico Berlinguer. I due leader si piacevano poco. Dopo il congresso del 1966 erano stati in lizza per la successione di Luigi Longo alla segreteria. Napolitano era partito in vantaggio, poi i grandi vecchi del partito avevano optato per il sardo. L’alleanza tra loro sarebbe durata poco. Nella seconda fase della segreteria Berlinguer, quella della «questione morale» e del duello con Craxi, il migliorista amendoliano fu il principale avversario del segretario, bollato con critiche sull’Unità tanto dure che a leggerle oggi si parlerebbe di guerra aperta e di scissione a un passo.

QUELLE CRITICHE acuminate erano inevitabili. Sin dagli anni ’50 Napolitano si era tenuto in bilico tra posizioni molto moderate, vicinissime al riformismo di Antonio Giolitti, e fedeltà alla disciplina di partito. Quando, dopo l’invasione dell’Ungheria, Giolitti aveva alzato la voce, il compito di scomunicarlo era toccato a chi gli era stato al fianco, a Napolitano. Si sarebbe scusato platealmente e sinceramente molti decenni dopo, inaugurando il suo mandato presidenziale con una visita all’amico di un tempo nella quale ammise apertamente di avere avuto all’epoca torto.

La rottura berlingueriana con i socialisti di Craxi, il dirigente comunista più vicino all’universo socialdemocratico e più lontano da ogni nostalgia radicale non poteva accettarla e non la accettò. La sua destra venne definita, non senza un tocco sprezzante, «migliorista». Della questione morale Napolitano bocciava non solo la chiusura politica ma anche quella identitaria, il fortino della «superiorità morale» comunista. Quel rifiuto lo avrebbe accompagnato nei decenni della seconda Repubblica. L’ondata giustizialista seguita a tangentopoli non lo sfiorò mai. Dopo la vittoria di Berlusconi, nel 1994, si iscrisse a parlare nel dibattito sulla fiducia, senza avvertire nessuno, per rifiutare ogni contrapposizione pregiudiziale e identitaria: Berlusconi andò a stringergli la mano. Quando Renzi gli presentò una lista di ministri con Gratteri guardasigilli, cancellò il nome senza esitazione. Nei confronti del M5S e della Idv di Di Pietro, che di quella cultura giustizialista erano i campioni, il presidente Napolitano nutriva un’ostilità mai celata. Fece il possibile per impedire che, per le elezioni del 2013, nascesse l’alleanza Pd-Idv-Sel. Quando gli chiesero come valutasse il boom dei 5S, in quelle stesse elezioni, replicò gelido: «Non ho sentito nessun boom». Silurò il tentativo di Bersani di dar vita a un governo di minoranza per calamitare i recalcitranti 5S.

MOSSE DEL GENERE esorbitavano dai limiti consueti di un presidente. Quei limiti Napolitano li forzò al massimo, più volte. Impose a un Berlusconi contrarissimo la partecipazione alla guerra contro la Libia, facendo pesare il suo ruolo di capo delle forze armate. Fu un errore enorme. Si adoperò attivamente per sostituire il governo Berlusconi con quello di Monti, da lui scelto già mesi prima della crisi. Quando le forze politiche, in stallo dopo l’imboscata dei 101 che era costata a Prodi il Quirinale, si recarono sul Colle in delegazione, come questuanti dal monarca, li umiliò e per accettare il reincarico che invocavano le costrinse a sostenere un nuovo governo di unità nazionale, il modello «stabile» che prediligeva. Un re, appunto. Alla sua monarchia hanno contribuito tanto l’imperiosità dell’uomo quando la debolezza estrema della politica. Ma dopo di lui niente, negli equilibri istituzionali, è tornato o potrà tornare come prima.