Ci fu un tempo in Italia in cui tutta la politica e la cultura sembrava fossero riassumibili in un nome e nell’idea di un monumento: il nome era quello di Giordano Bruno e il monumento quello celebre di Campo dei Fiori. È di questa storia che racconta Massimo Bucciantini, già narratore di cose galileiane, nel suo nuovo libro, Campo dei fiori Storia di un monumento maledetto (Einaudi, pp. 391, euro 32,00).

La Chiesa e i cattolici italiani fecero di Giordano Bruno un «maledetto», come si sa; ma non è il loro punto di vista a interessare Bucciantini, che invece ha dedicato ricerche accurate al mondo dei caffè e delle aule universitarie dove i giovani figli della borghesia italiana si ubriacarono di retorica del martirio e del libero pensiero. Furono loro a concepire il progetto del monumento. Distratta e sbiadita, la «nuova Italia» liberale rimase sullo sfondo, alle prese con l’ostilità di masse popolari, sempre fedeli alla religione e al papa.
Tra i meriti della ricerca di Bucciantini c’è dunque l’aver concentrato l’attenzione sull’ambiente giovanile e studentesco da cui vennero sia la prima idea del monumento sia l’impegno decisivo per la sua realizzazione. Difficile dire che cosa sapessero di Giordano Bruno il primo attore della storia, Adriano Colocci, ventenne di piccola nobiltà marchigiana, e il suo compagno d’avventura il cesenate Comandini. D’altra parte, perfino Antonio Labriola, quando l’onda del movimento lo coinvolse con la richiesta di una conferenza su Bruno, dovette chiedere i libri necessari a un giovane e già dottissimo Benedetto Croce: gli mancava perfino quella edizione Daelli degli scritti di Bruno che fu a lungo l’unica offerta dell’editoria italiana.

Resta indiscutibile, tuttavia, un dato di fatto: il secondo Ottocento dell’Italia liberale fu interamente pervaso dalla «brunomania»: l’insultante definizione fu lanciata da un articolo del gesuita Luigi Previti, uscito anonimo sulla «Civiltà cattolica» del 1888, l’anno precedente a quello della inaugurazione del monumento a Campo dei fiori. Ma l’epoca in cui Giordano Bruno divenne oggetto di una vera e propria mania era cominciata molto prima e i suoi effetti si erano diffusi in tutto il nostro paese.

Quando nel 1876 lo storico cattolico bavarese Ludwig Pastor scese in Italia per dedicarsi al compito di ribattere al libro di storia dei Papi del protestante Ranke con quella che doveva diventare una delle più grandi imprese erudite di ogni tempo, la prima domanda che si sentì rivolgere, appena toccata Verona, fu se era proprio vero che Giordano Bruno fosse stato mandato al rogo. L’apologetica cattolica si era rifugiata nella negazione di quella morte. Solo alla fine, quando ormai si spegnevano i furori dell’età liberale, il documento fu trovato: e fu una delle poche acquisizioni di nuove conoscenze in tutta quella fase di scritture e di discorsi. Una gigantesca fabbrica di parole, secondo Massimo Bucciantini, che nel suo libro non nasconde il fastidio per essersi dovuto sciroppare il beverone di retorica piazzaiola e avvocatesca, allora di prammatica in quell’ambiente. Il Sant’Uffizio dell’Inquisizione, da poco tempo privato del braccio secolare con la nascita dello stato liberale, appariva allora come la macchina mostruosa dell’intolleranza e della superstizione che aveva tenuto gli italiani lontani dalla civiltà moderna – quella civiltà che papa Pio IX aveva additato col Sillabo come la somma di tutti gli errori. Nel processo pubblico che si aprì toccò al papato prendere il posto dell’imputato davanti ai fantasmi dei «martiri del libero pensiero»: la folla di ombre di torturati e uccisi, incalzante dietro i nomi di Bruno, Campanella e Galileo. Però alla fine Galileo rimase indietro: per entrare nel pantheon dei martiri poteva esibire solo la frase celebre ma inventata dell’«eppur si muove» e l’altrettanto inventata tortura inquisitoriale, che però non bastava ad assolverlo dal cedimento dell’abiura.

E tuttavia il sogno di un’Italia laica, capace di prendere le distanze dal potere papale e di legarsi ai valori laici delle nazioni europee, attirò intorno al progetto del monumento l’attenzione e il consenso di tanti autorevoli protagonisti della vita intellettuale del tempo: lo mostra l’elenco delle adesioni e delle offerte in danaro che arrivarono dall’estero al comitato promotore degli studenti; anche se poi, davanti al trascinarsi senza esiti del progetto, ci furono circospette domande di informazioni.

Ma nomi come quelli di Victor Hugo, Ernest Renan, Rudolf Jhering e tanti altri, danno un’idea delle attese che l’Italia era in grado di suscitare nella cultura internazionale. E il coraggio di questi studenti appare tanto più apprezzabile, pur con tutta la sua dose di giovanile approssimazione, a fronte delle chiusure e delle pavidità di una dirigenza politica che li lasciò soli in Campidoglio quando organizzarono una solenne commemorazione di Jules Michelet.
D’altra parte, nemmeno l’idea del monumento fu farina di menti italiche: Bucciantini ha scoperto che il primo inventore e poi assiduo sostenitore del progetto fu l’esule comunardo ebreo francese Armand Lévy. È questo il nome da ricordare, sfuggito finora perfino all’imponente e dottissimo Dizionario bruniano da poco pubblicato dalle edizioni della Normale a cura e sotto la direzione di Michele Ciliberto. Dietro Armand Lévy si avanzavano tanti giovani, da Giovanni Amici al bolognese Giuseppe Vernazzi e agli animatori e componenti dei gruppi giovanili che tennero viva la fiaccola del progetto. Perché l’altra scoperta di questo libro riguarda l’esclusivo merito di un movimento italiano di studenti – allora piccole minoranze di una università d’élite in un paese di analfabeti – nel portare al successo definitivo la costruzione di quel monumento.

Bastò la fedeltà a quel progetto per portare un vento di nobili ideali e di grandi valori che mosse le acque stagnanti di una politica asfittica, dominata da consorterie massoniche e dal timore dei movimenti popolari. Agli studenti romani si affiancarono quelli di tante altre università: e a loro si aggiunsero movimenti anarchici, come quelli della turbolenta Pisa da cui partì l’invito a Labriola, che fu dunque costretto a documentarsi su Giordano Bruno. Ma c’era anche qualcosa di nuovo. Labriola spiegò a Croce che a muoverlo era l’impulso di una classe operaia in formazione: la si era vista per le strade di Roma in un imponente corteo guidato da Andrea Costa, e l’anarchico romagnolo non perse l’occasione per ricondurre idealmente la lotta presente a quella di Giordano Bruno e degli altri martiri della libertà.
Erano segni nuovi e inquietanti per le classi dirigenti dell’Italia liberal-massonica. Non per niente il consiglio comunale di Roma oppose sordità e silenzi all’iniziativa degli studenti. Ci vollero l’intervento deciso di Crispi e le nuove elezioni che portarono in consiglio una diversa maggioranza perché finalmente fosse approvata l’erezione del monumento nel luogo dove si era svolto il rogo. Dietro quelle resistenze si percepisce la paura di una classe sociale esitante davanti ai ricatti della Chiesa, che fino ad allora le aveva garantito la docilità delle classi popolari vincolandole alla religione. E così arrivò la grande giornata del 9 giugno 1889, e la marea di popolo venne esaurientemente documentata da un giornalismo che imparava allora a far uso del reportage fotografico.

Il mondo intero guardò quel giorno all’Italia e al cupo pensoso monaco nero scolpito da Ettore Ferrari per Campo dei fiori. Bastò il suo spettro a esorcizzare, in quella fine secolo, la minaccia della conciliazione tra Stato e Chiesa. Ma il sogno dell’Italia laica ebbe breve durata. E la statua corse non pochi pericoli quando, tornate le classi dominanti alla devozione, la Conciliazione divenne una realtà. Toccò a Eugenio Pacelli chiedere la rimozione della statua da quel luogo. Non la ottenne. Il re e Mussolini non ebbero il coraggio di consentire una sconfessione troppo sfacciata dell’eredità risorgimentale. La Chiesa dovette contentarsi di un risarcimento simbolico: dichiarare santo il cardinale Bellarmino, tanto per ribadire la condanna di Giordano Bruno. Né ci fu posto per il frate filosofo quando il quarto centenario del suo rogo fu tutto occupato dal Grande Giubileo, nell’anno 2000. Ma quel monaco nero resta come un rimorso per il paese della laicità assente, che impicca a un articolo 7 le solenni dichiarazioni di uguaglianza dei diritti della Costituzione repubblicana.