Enzo Moscato è un autore fondamentale della scena italiana di oggi. Gli sono debitori, tanto per fare due nomi, da Toni Servillo a Mario Martone. E non solo la scena napoletana, ma più generazioni artistiche che sulla sua scrittura si sono formate e sono cresciute. Una cultura sterminata, la conoscenza di lingue vive e «morte», moderne e antiche, mescolate in maniera provocante e sulfurea, dietro una solo apparente «compostezza», sono materiale ricchissimo già pronto a prendere corpo sulla scena. Molti testi, conosciuti o scritti a partire dai primi anni 80, quando la vittoria ad un premio Riccione lo fece conoscere fuori della sua città, paiono capitoli di una sterminata, vissutissima, sempre sorprendente «autobiografia», che al di là delle forme colorite, degli «oltraggi» ai pudori costituiti, dei colori sgargianti che spesso ammantano e covano il più privato dolore, riguarda proprio tutti, anche chi ha modi e corsi esistenziali totalmente diversi da lui. Che per altro, al contrario dei suoi racconti ribollenti di eccessi e paradossi, è una persona quieta e dolcissima, amante delle forme e delle buone maniere, che trovano il proprio altare nelle canzoni della tradizione, e in certi leitmotiv divinamente cantati da lui, con garbo assai raro.

Sembra quasi naturale quindi (ma non deve esserlo stato del tutto) che una iniziativa culturale campana, finanziata con fondi europei dalla regione, abbia incentrato su quell’artista la propria apertura. Si tratta di «Sistema Irpinia per la cultura contemporanea», inaugurato appunto da questo progetto sulla scrittura di Moscato a partire da Occhi gettati (il suo titolo «rivelazione» che oggi si fa indice generale) e realizzato, sotto la guida di Francesco Saponaro, da Teatri Uniti e dagli artisti indipendenti dell’ex asilo Filangieri. Un progetto iniziato nel 2010 alla civica scuola Paolo Grassi di Milano, e poi proseguito dallo scorso anno a Siviglia e Napoli sotto forma di laboratorio.

Così che erano quasi una ventina gli attori che nello scorso fine settimana hanno animato, in un percorso itinerante nelle sale e negli ambienti da poco restaurati, il castello di San Barbato a Manocalzati, un centro vicinissimo ad Avellino. E il titolo Occhi gettati si è allargato a comprendere e citare molta parte delle composizioni di Moscato, una vera «partitura» lungo una vita, che non a caso lo stesso Moscato ha aperto e poi intervallato con le pagine del suo romanzo più propriamente autobiografico, Gli anni piccoli. E per attori (che pure cantano e danzano) e pubblico, si fa escursione nel barocco napoletano proprio attraverso le derive teatrali e linguistiche in cui Moscato è stato capace di introdurci nel tempo. Così, tanto per fare un esempio dalla scena iniziale, i ricordi infantili che l’attore ci legge, si impennano nel canto corale del Tantum ergo Sacramentum che precedeva le devozioni cattoliche nel latino preconciliare, per poi evocare l’aspetto inquietante di Pulcinella e del suo teatrino di guarattelle nei vicoli di via Toledo, e quindi con una signorina dal nome programmatico di Margherita d’ ‘e fiore. Femminielli e divine del varietà, marpione di strada e rigide moralità represse, si passano la scena con una levità che non evita di pungere il nostro profondo.

Ricordi, scoperte, emozioni e paure di quella che è stata davvero un’infanzia collettiva dopo la guerra (certo diversa per ognuno per via delle scelte e delle esperienze) si succedono e si srotolano in una serie di visioni che con grande dedizione, e molta intelligenza e tecnica accurata, gli attori guidati da Saponaro hanno saputo costruire. Da Carmine Paternoster a Valentina Vacca (ma mai come in questa occasione andrebbero nominati tutti, se non fossero tanti), quei personaggi si fanno figurine o giganti, inquadrati e riquadrati dalle luci di Cesare Accetta, sempre in bilico sul buio della «perdizione» o sotto i fari potenti della «popolarità». In una alternanza dolente e inquietante che a tratti può far sorridere, trasformando immediatamente quel sorriso in una solidarietà amarissima.

È la grandezza della scrittura di Moscato, fatta di elementi minimi, di particolari a prima vista irrilevanti che poi scoprono anfratti paurosi nelle pieghe di quelle esistenze. E che solo la serena maestria dell’autore e attore, sa ricomporre in una fedele e vibrante immagine della Napoli che ognuno si porta dentro: non più il letterario ventre ottocentesco, ma l’integrale complessità di oggi.