«Com’è buono lei», biascica l’impiegato Fracchia precariamente appollaiato al cospetto del signor direttore. Già. Come sono buoni i leader del G7 riuniti a Carbis Bay per la prima volta dall’inizio della pandemia, a celebrare il ritorno degli Usa nell’arena globale. Come sono umani e intrisi di magnanimità i loro annunci, ora che si ritrovano «uniti e determinati a proteggere e promuovere i nostri valori», per dirla con Ursula von der Leyen.

L’impegno di donare un miliardo di vaccini ai paesi poveri e ai più vulnerabili entro la fine del 2022 ha enfaticamente segnato l’avvio del summit, in discontinuità con il nazionalismo sanitario in cui si sono pervicacemente esercitati i governi del club, Usa e Gran Bretagna in testa. Il G7 detiene un immenso surplus di vaccini. Ha rotto il ghiaccio prima dell’arrivo in Europa Joe Biden, annunciando la donazione di 500 milioni di dosi «per salvare vite e porre termine alla pandemia». La singola più grande donazione della storia, recita la nota della Casa Bianca, forse per dar conto del desiderio di emanciparsi dalla sindrome America First.

Nei proclami rilanciati dalla Cornovaglia la stampa mainstream si accalora, nella ritrovata relazione con la ricca compagine atlantica dalla cui tavola cadono le briciole vaccinali, perché «quando vediamo la gente ferita e sofferente in ogni parte del mondo, noi facciamo di tutto per aiutarla», ha chiosato Biden prima dell’inizio del G7.

Ma sono, appunto, briciole. Insufficienti e tardive. Servirebbero 11 miliardi di dosi entro il 2021 per vaccinare il 70% della popolazione con due dosi a testa, mentre abbiamo visto finora «una storia di disuguaglianza vaccinale», secondo la rivista Nature. Un miliardo di dosi son buone a vaccinane 500 milioni di persone nel sud del mondo, e con il contagocce. Biden ne donerà 200 milioni nel 2021, 300 nel 2022. Degli altri soci del G7 sappiamo poco, nello specifico. Non saranno la soluzione.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha ricordato giovedì scorso che 9 su 10 nazioni africane mancheranno l’obiettivo di immunizzare il 10% della popolazione entro settembre. Con 32 milioni di dosi somministrate, l’Africa vale meno dell’1% dei 2,1 miliardi di dosi finora iniettate globalmente: solo 9,4 milioni (su 1,3 miliardi) di africani hanno completato la vaccinazione. Intanto l’ondata virale è in decisa ripresa nel continente nero: 4 paesi hanno registrato un incremento del 30% dei casi di Covid-19 nell’ultima settimana, secondo il Direttore Regionale dell’Oms, Matshidiso Moeti.

La stessa macchina creata con parvenza di solidarietà per finanziare la produzione e distribuzione dei vaccini ai paesi poveri, Covax, una vera e propria banca d’affari secondo lo studioso Harris Gleckman, «riproduce una cultura profondamente coloniale, che non si è mai degnata di chiedere ai governi africani che cosa volessero», ha commentato prima del G7 il Dr Ayoade Alakija, a capo di un’iniziativa dell’Unione Africana per la distribuzione dei vaccini. Se lo avesse fatto, sostiene Alakija, avrebbe scoperto che anche in Africa occorre vaccinare almeno il 70% della popolazione per ottenere una qualche garanzia di immunità. Covax non prevede per i paesi poveri quanto vale per i paesi ricchi. Ai primi, Covax riconosce il diritto a una copertura massima del 20%.

Capite quanto sia stucchevole l’iterazione dello slogan «non lasciare nessuno indietro», nella trita retorica dello sviluppo sostenibile?

Ci ha tenuto a precisare Biden che i suoi vaccini saranno donati «senza condizioni». Per esperienza, sappiamo che le donazioni sono, sempre, briciole condizionate. A maggior ragione quelle del vaccino anti-Covid, strumento primario di geopolitica, più che di salute pubblica. All’ultima Assemblea mondiale della sanità non ci è sfuggita l’iterazione della partitura delle delegazioni che ringraziavano la Cina per i vaccini donati (22 milioni di dosi) e contestualmente negavano a Taiwan ogni possibilità di riammissione come osservatore all’Oms.

Per l’ alleanza del G7, la donazione dei vaccini è un poderoso gesto simbolico contro la Russia e la crescente capacità di influenza globale della Cina, quanto basta per implicare condizioni. Ed è un sapiente tassello della strategia negoziata negli ultimi mesi da G20, Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc), Commissione Europea e Banca Mondiale, con lo zampino della filantropia strategica, per organizzare una rete di licenze volontarie e finanziare produzioni delocalizzate di vaccini, così da salvaguardare la proprietà intellettuale e allontanare lo scenario di una sua sospensione a tempo.

Il terreno di gioco è il baratto con l’industria farmaceutica che emerge con spiccata coerenza dalle proposte del circuito multilaterale, compresa la neonata Covid Manufacturing and Supply Chain Taskforce, il frutto del vertice Usa-Ue che incardina nuovi impegni pubblici per incentivare il ruolo delle imprese nei trasferimenti di tecnologia, in cambio della tutela dei monopoli da Covid-19, già finanziati dalle fiscalità nazionali.

Il panico delle aziende, dopo l’annuncio di Biden a favore della sospensione dei brevetti, è rientrato. Gli analisti di Follow the Money raccontano come Pfizer si stia adoperando in Olanda per nascondere al fisco 36 miliardi di dollari. Altro che «lezioni apprese da Covid».

Il sistema è dei capitali che manovrano e la globalizzazione si organizza a ricostruire quello che c’era prima. Dev’essere per questo che l’altro mantra della comunità internazionale è «building back better».