«Celui qui oublie ses racines n’atteind jamais sa destination» dice Mohamed, il pescivendolo-filosofo tunisino, allungandomi un piatto di moscardini in rosso leggermente piccanti, squisiti. Poi arrivano i C’mon Tigre, l’enigmatico duo cinematic-afrobeat che si è temporaneamente accampato in città, impiantando radici e rigenerando il proprio universo sonoro, e non solo: vestiti di nero, sciccosissimi, a passo lento, confabulanti, si siedono al solito tavolino sotto il portico, tra bancarelle bangla di frutta e verdura e boutique di scarpe di lusso. Ordinano vino bianco e frittura di paranza, un classico sabato in un mercato del centro di Bologna. Racines è nato sotto questi portici, e in una ex officina fuori città, dove ha preso forma prima la musica, «recupero di una memoria lontana, che ci ha indubbiamente cresciuti, hip hop, downtempo, trip hop anni ’90», raccontano i due. Poi sono esplose le immagini, portate dal carico cinematografico della loro miscela di afrobeat, funk e psichedelia.

NÉ DISCO, né libro d’arte, ma molto più. Un bellissimo e ambizioso puzzle che mescola le dieci languide musiche delle Tigri alle immagini di altrettanti artisti visivi (Maurizio Anzeri, Harri Peccinotti, Danijel Zezelj, Mode 2, Gianluigi Toccafondo, Boogie, Sic Est, Shigekiyuriko Yamane, Stefano Ricci e Ericailcane). Un impasto caldo e scivoloso, che combina acustico e sintetico. Se il primo disco omonimo, del 2014, era un racconto di viaggi nel Mediterraneo, questo secondo progetto è un gioco di specchi dove le spezie si mescolano col cyberpunk, la sezione fiati con le drum machine, i vecchi sintetizzatori con i laptop con la Mela. E funziona. «Moog Liberation, Sub37, Buchla Music Easel: strumenti che vengono dal passato, raccolti nel tempo per contaminare il nostro suono. Tanto che ogni musicista sul palco del prossimo live, oltre al proprio strumento acustico è accompagnato da uno strumento sintetico».

LA CHITARRA elettrica si muove libera a graffiare una tela molto elaborata: quando le schitarrate si mescolano con i ritmi spezzati, come nel gioiello 808, dedicato alla madre di tutte le batterie elettroniche giapponesi, è magia pura. Ti parte il piedino, e non riesci più a stare fermo. «I synth non sono indispensabili, in passato abbiamo suonato molto anche in acustico. Racines potrebbe essere il ciclo che chiude l’esperienza sulle macchine, in futuro potremmo ritornare all’acustico…».

DI DIGITALE c’è tanto però, come il mondo fantascientifico creato insieme all’artista Sic Est per il videoclip di Behold the man, che racconta proprio di un dancefloor primordiale: in una Matrix-da-ballo, i primi esseri umani, nati nudi e liberi, si muovono inebriati dalla liberazione del corpo, fino a quando non si scontrano, fondendosi in qualcosa di nuovo. Il richiamo alle radici è forte: «ti accorgi che nelle tue memorie ci sono anche le serate passate nei club, dove si ballava da star male, dove si faceva mattina…», aggiunge uno dei due da dietro gli occhiali da sole anche se non c’è sole a Bologna.
Nel frattempo, accompagnati da alcuni dei migliori musicisti della scena underground (Beppe Scardino, Mirko Cisilino, Marco Frattini, il tentacolare e straordinario Pasquale Mirra) le due Tigri preparano un bagaglio leggero per l’imminente tour italiano nei club.