La produzione forse più impegnativa della stagione ha debuttato allo stabile romano. Si tratta di Emilia (all’Argentina fino al 19 aprile), che porta a Roma un artista conosciuto e apprezzato in tutto il mondo, e anche in Italia, ma che a Roma non aveva mai avuto una presenza significativa. Claudio Tolcachir è un quarantenne drammaturgo e regista (ma agli inizi anche attore) della prorompente nuova scena argentina, quella esplosa a Buenos Aires dopo la fine della dittatura , tra le abissali crisi economiche e il lavoro di riscrittura sociale della storia di quel paese. Un teatro assai diverso ma di massa, alternativo a quello delle luccicanti sale di avenida Corrientes, che ha preso corpo in ambienti di fortuna (garage, depositi abbandonati, androni e anche nelle case) della megalopoli sudamericana .

Lo scavo principale della scrittura di Tolcachir, per quanto si è visto da noi, riguarda in primo piano la famiglia, i suoi rapporti, le sue apparenze e le sue perversioni, che può perfino apparire un interesse «naturale» in un paese dove quella istituzione ha subito più che un trauma dall’orrore dei desaparecidos e delle adozioni segrete. Era stata una vera rivelazione la sua Famiglia Coleman, una sorta di gioco di ruolo proletario verso l’abiezione (previsto il suo arrivo in scena a Roma per l’autunno); ne costituisce una formalizzazione ulteriore il suo ultimo lavoro, che era apparso a Bari tre anni fa, nella sua originale versione porteña.

Ora Emilia arriva invece in italiano, con protagonista nel ruolo del titolo Giulia Lazzarini con tutto il carisma della propria storia, di scena e di vita. Emilia è il nome della vecchia tata che un uomo incontra nuovamente, dopo averla persa di vista per tanti anni, proprio nel momento in cui ha appena effettuato un trasloco con quella che appare essere la sua «famiglia», una moglie e un figlio ormai cresciuto, immersi tutti in un panorama di mobili, scatole, scatoloni e scartoffie e biancherie in procinto di essere sistemati nella loro nuova sede. Al centro una porta, unica comunicazione col mondo, e dei ripiani sfalsati a indicare altri ambienti.

Stralunati e improvidi appaiono i personaggi, tranne Emilia che ha il vantaggio di disporre di una buona memoria, e di poter costruire con un fiume di ricordi una mappa storica di sentimenti e relazioni assai solidi e positivi, seppur tutti con un misterioso alone di «non detto». Tutti seguono il filo della propria logica apparente: Walter padrone di quella casa cantiere (Sergio Romano sempre intenso e bravissimo), la svagata e ambigua moglie (una attonita e combattuta Pia Lanciotti), il figlio Leo in cerca di positività (Josafat Vagni). L’arrivo solo in apparenza casuale di un altro uomo (Paolo Mazzarelli) farà esplodere la situazione: è stato un tempo compagno della donna, e quindi il vero padre del ragazzo.

La situazione potrebbe farsi esplosiva, a tratti lampeggia all’occhio dello spettatore il fantasma della telenovela, genere principe di quella narrazione popolare. Ma è un lampo voluto: ben altre crudeltà (o scandali, o problemi) emergono da quei frammenti di ricordi, dalla dolcezza avvolgente della vecchia Emilia come dai geometrici deliri del protagonista. La realtà è assai peggiore e torbida delle grida e dei convenevoli di superficie. E ognuno, per sopravvivere, si sceglie su cosa puntare.