Occorre riconoscere che Gio Ponti ormai da tempo gode di un solido successo: il mercato sostiene la vendita dei suoi costosi mobili e oggetti (Molteni, Ginori 1735, Venini, Sambonet, ecc.), e l’editoria offre una vasta scelta di pubblicazioni: dall’edizione più economica (Giunti) a quella numerata per il lettore-collezionista (Taschen). Il mondo accademico, di riflesso, asseconda questo permanente interesse con una diffusa mole di studi e ricerche che in alcuni casi trovano riscontro in eventi e mostre, e insieme, com’è naturale, alimentano la fortuna critica dell’architetto-design milanese.

All’interno di questo consumo diffuso del «Tutto Ponti», per citare il titolo della fortunata mostra parigina al Musée des Arts Décoratifs del 2018, s’inserisce il libro Officina Gio Ponti Scrittura, grafica, architettura, design, a cura di Manfredo di Robilant e Manuel Orazi (Quodlibet «Habitat», pp. 275, € 32,00): una raccolta di otto saggi suddivisi in quattro aree tematiche che per lo più ricalcano tesi già note agli specialisti e argomenti già bene illustrati negli anni scorsi.

Ne fa eccezione, perché legato alla cronaca, il racconto di Gabriele Neri a proposito della Linea Diamante, l’automobile «senza crinolina» che non vide mai la strada, ma che nel 2018 è stata riprodotta da FCA Heritage in occasione della fiera dell’automotive Grand Basel; inoltre, la lunga intervista di suo nipote Paolo Rosselli, un valente fotografo, con Joseph Rykwert, svolta a Londra nel 2014.

Lo storico dell’architettura inglese era «un povero studente» quando, nel 1949, ebbe la fortuna di incontrare Ponti e fare la conoscenza della sua famiglia. Nei ricordi del quasi centenario Rykwert affiora l’inizio della sua collaborazione con «Domus» e come Ponti «faceva lavorare in studio della gente un po’ fuori strada», come Bernard Rudofsky, autore del famoso Architettura senza architetti (1964), oppure Edoardo Persico, coinvolto nel progetto Montecatini: «niente di preciso – aggiunge l’intervistato – anche se vale la pena di indagare». Rosselli, che nelle pagine finali del libro «incornicia» le architetture milanesi di Ponti con una serie di fotografie, accenna al centinaio di migliaia di lettere da lui possedute che sarebbe, forse, necessario leggere tutte.

In realtà, anche se le fonti sono state ampiamente scandagliate, non è escluso che gli archivi pontiani o di altri riservino in futuro ulteriori storie. Come, ad esempio, riferendoci agli anni del fascismo, è stato il caso dell’urbanistica di Ponti: un aspetto poco indagato della sua attività prima che Giorgio Ciucci se ne occupasse dimostrandone l’importanza in occasione della mostra del MAXXI Gio Ponti. Amare l’architettura (2019).

Gio Ponti, Vaso delle donne e delle architetture, maiolica, 1924, manifattura Richard-Ginori

Da approfondire ci sarebbe poi la fitta rete di relazioni che Ponti accresce negli anni. A iniziare dal presidente della RAS, Enrico Marchesano, per il quale nel 1938 progetta una villa a Bordighera e attraverso il quale giunge a Guido Donegani, il presidente della Montecatini che nel 1936 gli affiderà l’incarico per la sede dell’importante industria chimica.

Nel suo saggio, già pubblicato nel 2018 sul «Journal of the Society of Architectural», di Robilant indica di questo edificio il valore di «rottura» per le sue «caratteristiche così apertamente moderne», anche se appare del tutto sbilanciato il confronto con il Terragni della comasca Casa Del Fascio e con il Giovanni Michelucci della Stazione di Firenze.
Nel dopoguerra faranno la loro comparsa nuovi committenti, in continuità con gli assetti imprenditoriali del destituito regime. Tra questi c’è la Bastogi, il «salotto buono» di controllo delle società che incaricano l’architetto-designer per i loro uffici: secondo Palazzo Montecatini, 1947-’51; sede RAS, 1956-’60; Grattacielo Pirelli, 1956-’61.

Di quest’ultimo Fulvio Irace illustra le vicende, collocandole all’apice del successo professionale di Ponti, che dopo gli «exploit giovanili» alla direzione della Richard-Ginori e nella costruzione della sua «casa all’italiana», lo vede rigenerato per nuove sfide alla «vigilia di una terza vita».
Le due sole architetture di Gio Ponti raccontate nel libro sono introdotte da un «atlante visuale» che indica le altre da lui costruite nei suoi sessant’anni di attività. Scorrendole fanno riflettere su ciò che è rimasto di quella «città armoniosa» dalle «sequenze spettacolose» che il giovane Ponti s’immaginava per lo Scalo Sempione o chissà per quali altre parti della sua amata Milano che non riuscì a realizzare. La sua idea di città era certo di altro segno rispetto a quella razionalista dei Pagano, degli Albini e dei Bottoni, ma altrettanto lontana dai desideri cinici dell’industriosa borghesia meneghina, che gli preferì il «Barbarossa» Portaluppi. Nulla certo a confronto dell’oggi.

«Poliedrico» e «prolifico» sono gli aggettivi che con più insistenza ricorrono nel libro per distinguere l’opera di Ponti, tra la scrittura, «animato da un irrefrenabile desiderio comunicativo» (come spiega Cecilia Rostagni), la grafica (come illustra Mario Piazza) e ovviamente il design, dove Ponti fornirà un contributo fondamentale nell’«invenzione» dell’odierno «made in Italy», muovendosi sullo sfondo delle promozioni internazionali (e lo racconta Elena Dellapiana).
È l’essere stato però un «chierico che non ha tradito» ciò che meglio compendia la sua personalità secondo quanto sostiene Orazi. Sulla base della nota tesi di Julien Benda sul ruolo dell’intellettuale, Ponti è collocato tra coloro capaci di «reprimere la passioni irrazionali e gli “astratti furori” degli architetti politicizzati». Una lettura per la quale si potrebbe impiegare per Ponti quanto Gramsci disse di Croce: sempre disposto agli «atteggiamenti equilibrati, olimpici».

Peccato, però, che Croce contro il «rigidismo morale» del Benda rispose che «la seria volontà morale è creatrice e promotrice di vita e perciò non ha nessuna paura di contaminarsi». Insomma, che il «distacco dalla vita» determina che «la scienza e l’arte intristiscono, si facciano vuote e accademiche». È questa una delle ragioni per cui si polemizzò con l’architetto milanese.
Contiamo che sull’allerta del filosofo l’«Officina Gio Ponti» non si riposi né si accontenti per proseguire nel suo lavoro storiografico