«Ogni lingua è bisognosa di traduzione, e la traduzione stessa non è che la risposta a un’urgenza essenziale». Citare queste parole di Gino Giometti oggi commuove e impone di ricordare un filosofo ispirato, oltre che un fine traduttore e coraggioso quanto pregevole editore. Il suo Martin Heidegger. Filosofia della traduzione (Quodlibet, 1995) è un libro – nato da una tesi di laurea – di stupefacente maturità e originalità, che desta ammirazione ad ogni lettura, per la chiara e decisa penetrazione di Essere e tempo e dei saggi e dei corsi heideggeriani su Hölderlin, innanzitutto, ma anche su Parmenide, Eraclito, Anassimandro. È poi uno studio che restituisce, a chi ha avuto a volte la fortuna di prendervi parte, la memoria viva dei seminari e delle discussioni continue fra i giovani amici che si erano riuniti intorno a Giorgio Agamben e che, col suo contributo e il suo incoraggiamento, stavano fondando, in quei primi anni novanta, a Macerata, la casa editrice Quodlibet: Giometti, che ne condividerà poi a lungo la direzione con Stefano Verdicchio, si era trasferito lì da Montepulciano, per seguire il primo corso universitario del suo futuro relatore, dedicato appunto a Essere e tempo.

E se la lettura di quel capolavoro, come una volta mi disse, decretò la vera svolta della sua vita, se certo la stella di Heidegger guidò la formazione del giovane studioso, al centro delle sue riflessioni fu sin dall’inizio l’intreccio indissolubile di lingua, ontologia e storicità, vero cardine attorno al quale egli sapeva anche avvicinare, e con le più rigorose misure, i nomi di Benjamin, di Saussure e Benveniste o dell’altro grande allievo di Meillet, Gustave Guillaume (da cui traeva il termine tecnico «cronotesi») e soprattutto quello del teorico della traduzione Antoine Berman. È infatti in un dialogo serrato e creativo con L’épreuve de l’étranger di Berman, che Giometti leggeva Heidegger, cioè, in modo del tutto inedito, esaminava nei particolari le sue famose quanto «sconcertanti» versioni dal greco, per rivelare, ai nostri occhi inesperti, il loro tenore genuinamente ermeneutico. Come la traduzione non deve infatti avvicinarci la lingua straniera, ma spingere il detto «via da noi», così l’interpretazione non deve, per Heidegger, pretendere di renderlo più accessibile, ma, al contrario, deve farci esperire tutta la sua distanza. Solo questa esperienza dell’estraneo, osservava poi Giometti, può restituire una lingua a se stessa, alla pura potenza di dire, ovvero allo stadio del suo libero «Uso».

E così, ricorrendo anche in italiano all’iniziale maiuscola, egli rendeva il Brauch di Heidegger per indicare quel che resta irriducibile alla «mera utilizzazione» (o alla falsa accessibilità) e, al tempo stesso, per far coincidere il proprio compito di filosofo con quello di ogni traduttore: «tradurre la parola in Uso». Nella fedeltà a questo motto, dapprima implicito quindi vergato in chiusura del suo libro, egli aveva d’altra parte già restituito l’impervio Max Kommerell, Il poeta e l’indicibile (Marietti, 1991), i Pezzi in prosa di Robert Walser (Quodlibet 1994), e avrebbe di lì a poco consegnato ai lettori italiani due volumi dell’amato Berman, La prova dell’estraneo (Quodlibet, 1997) e La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza (Quodlibet, 2003).

L’ultima versione di Giometti è però proprio la prima, secondo il movimento che restituisce il tradurre non solo al pensiero, ma all’altra prassi, altrettanto inseparabile, dell’ «autore come produttore» o nel suo caso «come editore»: Il poeta e l’indicibile è stato infatti ripubblicato nel 2020 dall’ormai ben nota, e subito lodata da Umberto Eco, Giometti&Antonello, a cui Giometti, uscito da Quodlibet nel 2013, aveva dato vita con l’amico e poeta Danni. Le opere di Mandel’štam, Trakl, Carl Einstein o, ultimamente, di Timpanaro e De Signoribus, figurano nello splendido catalogo di questa casa editrice, inaugurato dal Lenz di Büchner (nella «storica versione» di Alberto Spaini) e arricchito nel corso del tempo dalle Memorie di un editore di Kurt Wollf o da un titolo ormai introvabile in lingua originale, del quale anche si parlava ai tempi dell’università, come Il gioco della guerra di Alice Becker-Ho e Guy Debord. Per presentare questo libro a cui tanto teneva, Giometti sarebbe dovuto venire con alcuni suoi amici e collaboratori a Bologna, qualche anno fa: non fu così, qualcosa all’ultimo minuto gli impedì di essere fra noi; al momento dei congedi, Giampiero Cane riuscì però a far comparire almeno il tratto indelebile del suo carattere: «salutatemi il filosofo ridens».

di Andrea Cavalletti

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Una esitazione pressoché impercettibile precedeva le sue parole
di Gino Trucillo

Ogni volta che parlavo con Gino Giometti ero colpito da una pausa impercettibile che precedeva le sue risposte. Era come se le sue parole dovessero attraversare uno spazio di approfondimento prima di potersi esprimere. Col tempo avevo capito che quella pausa leggermente spiazzante era una garanzia di serietà per l’interlocutore, visto che concedeva alle formulazioni una sostanza non meccanica. In quello spazio silenzioso c’era il nucleo di Giometti: l’autonomia delle sue posizioni che non si conformavano mai all’altro, l’esigenza di parlare a ragion veduta, la voglia di preservare la complessità del pensiero.

Quel suo sostare nella sospensione non gli impediva di essere reattivo o determinato, semplicemente esprimeva il suo bisogno istintivo di aderire a un fondamento, per quanto radicale fosse. Gino Giometti non aveva paura del corpo a corpo con il vuoto e con l’estremo, come del resto manifestavano le sue predilezioni per autori come Walser, Artaud, Büchner, o per poeti come Trakl e Pizarnik. Ma anzi percepiva la necessità di un tale confronto per poter arrivare al significato profondo delle cose. In questo senso il coraggio e la dignità delle sue scelte editoriali controvento, che preservavano la qualità in un panorama sempre più inquinato dalle semplificazioni della cultura del profitto, si manifestano come una caparbia educazione alla bellezza. Quella minuscola pausa di silenzio che contraddistingueva i suoi discorsi rivelava un processo dialogico che si sforzava di dare un peso alle parole. Il massimo complimento che si possa fare oggi a una persona, e tanto più a un editore.