Le note musicali si rincorrono al Madison Square Garden di New York, il 1 agosto 1971, entrando nei cuori della gente mentre fanno conoscere al mondo l’esistenza del Bangladesh e del dramma della popolazione. È Ravi Shankar a parlarne con l’amico George Harrison che, in tempi record, riesce a portare sul palco il gotha dei musicisti (tra loro Bob Dylan, Ringo Starr, Eric Clapton, Billy Preston, gli stessi Harrison e Shankar con il magico sitar) in un happening di beneficenza senza precedenti a sostegno dei milioni di profughi della guerra di liberazione bengalese. Non è un caso che nelle sale del Liberation War Museum di Dhaka ci sia un angolo dedicato all’ex Beatles, devoto di Swami Prabhupada, con il poster originale del Concert for Bangladesh e tra i memorabilia anche i dischi in vinile.

Nelle giornate convulse che precedono il 26 marzo 1971 quando il Bangladesh (allora Pakistan orientale) annuncia l’indipendenza dal Pakistan che dal ’48 lo aveva privato di molti diritti, a partire dalla lingua bengali sostituita dall’urdu, scoppia il conflitto armato che si concluderà il 3 dicembre. Alla resistenza bengalese partecipa anche la società civile con i battaglioni di donne partigiane in prima linea. Per le strade di Dhaka nelle giornate dense di emozioni, sudore e polvere che precedono quel momento storico c’è anche il giovane fotoreporter Gino Ferri (Parma 1948), insieme al collega e amico Paolo Crovi, nei cui scatti leggiamo il fermento dell’azione. Il suo desiderio di conoscenza, riflesso nel binomio viaggio/fotografia, è alimentato da uno sguardo sempre sollecito e partecipativo verso le questioni socio-politiche. Quel viaggio in Oriente «per essere al posto giusto, nel momento giusto» sarà il primo della sua carriera professionale, ma anche l’ultimo. In Bangladesh egli sarà vittima delle violazioni dei diritti contro i civili perpetrati dall’esercito di Islamabad, beccandosi la pallottola compromettente per la mobilità della sua mano. «Ho dovuto rinunciare alla macchina fotografica, poi c’è stata l’occasione di lavorare a Milano come coordinatore per l’agenzia di fotogiornalismo DFP-Document For Press, fondata da Aldo Bonasia». Tra il 1989 e il ’93 Ferri lavora per Photo Dossier Milano, passando all’agenzia Grazia Neri fino alla sua chiusura nel 2009. Entrato a far parte dell’associazione fotografica Il biancoenero di Brescia riprende a fotografare con un’autofocus e dal 2011 è attivista per la FIAB-Federazione Italiana Ambiente e Bicicletta. C’è un parallelo tra la fotografia e la biciletta? «È evidente, la lentezza!», risponde sorridendo.

Fotoreporter poco più che ventenne, nel 1971 ti trovi a Dhaka durante la mobilitazione civile per l’indipendenza del Bangladesh…
Nell’estate del ’70 avevo venduto bene le foto dei Paesi Baschi all’agenzia Gamma di Parigi che da quattro anni aveva cambiato il panorama del fotogiornalismo. Era una Magnum più «ruspante» e aggressiva ma con un alto livello di sapienza fotografica estetica, cura dell’immagine e sintesi. L’agenzia aveva due punte, una era Raymond Depardon e l’altra Gilles Caron che, proprio nel ’70, morì prematuramente in Cambogia e non fu mai più trovato. Mi avevano preso le foto per il loro contenuto di forte attualità sulla lotta dei Baschi che stavano per essere portati a giudizio al processo di Burgos con pesantissime accuse di terrorismo. Anche Vie Nuove pubblicò due inserti di 16 pagine. Con i soldi di Gamma decisi di andare in India. Le elezioni indiane erano molto attese anche in Europa perché Indira Gandhi, la figlia di Nehru, era ormai una star internazionale della politica. Inoltre, c’era lo scivolamento del Pakistan Orientale verso l’indipendenza con la previsione degli scontri e dell’opposizione del governo militare. L’idea che mi ha spinto a partire con un background ancora abbastanza limitato di esperienze, insieme al fotoreporter Paolo Crovi, era proprio di andare a fotografare queste due situazioni calde. Con Crovi ci frequentavamo a Roma insieme a un gruppo di fotografi indipendenti, tra cui Fausto Giaccone e Tano D’Amico.

Era il tuo primo viaggio in Oriente?
Sì, un viaggio di scoperta che è durato tre settimane, in nave da Brindisi al Pireo e poi tutto via terra: autobus, treno, taxi, autostop. C’era la voglia di contaminarsi, avere relazioni con gli abitanti delle regioni che si attraversavano. Un viaggio lento, tanto il tempo lo avevamo! Siamo arrivati in India verso il 20 gennaio quando la campagna elettorale indiana era già avviata. Vista dal Bengala era ancora più intensa perché lo sfondo era quello delle lotte contadine para rivoluzionarie. A Calcutta c’era la leggenda dei Naxaliti filocinesi e di altri movimenti ribelli negli stati periferici indiani. Avevamo la tentazione di coprire quell’area e avvicinarci a foto che effettivamente suffragavano quella situazione di turbolenza socio-politica. Dall’altra parte c’era, poi, la situazione del Pakistan Orientale.

Sei partito con due macchine fotografiche, usavi sia il colore che il bianco e nero?
Avevo una Canon con un obiettivo 50 e un 135 di una modestia estrema e la Leica per un uso più veloce. Scattavamo in bianco e nero ma ci tenevamo anche a fare il colore, perché ormai veniva apprezzato dai giornali, soprattutto dai settimanali. Alla Gamma mi avevano assicurato l’interesse a distribuirle, infatti ci siamo visti pubblicare due foto a colori, scattate a Calcutta sulle elezioni indiane, addirittura da Time. Le pellicole venivano spedite a Parigi dall’aeroporto di Calcutta. Per due volte e mezza con Crovi ci siamo spartiti l’incombenza di arrivare fino a lì. Mentre uno andava all’aeroporto, l’altro rimaneva sul posto a fotografare. Ci voleva una giornata di viaggio per attraversare il Delta e i villaggi, perché non c’era una strada diretta tra il Pakistan Orientale e l’India. L’ultima volta era andato Paolo ed è rimasto lì perché alla dichiarazione d’indipendenza, come reazione immediata, i militari hanno dichiarato lo stato d’emergenza e il coprifuoco. Tutti i giornalisti stranieri accreditati che si trovavano all’Hotel Intercontinental, o in altri hotel con nomi simili, furono portati a Karachi e rispediti indietro. Noi, invece, per spendere meno stavamo in un alberghetto dei quartieri popolari, cosa che mi ha consentito di tagliare la corda invece che farmi impacchettare con tutti gli altri giornalisti. Decisi di partire per Chittagong perché immaginavo che in quella città portuale si potesse respirare più libertà rispetto a Dhaka dove la repressione era forte. Ma il mio viaggio si è fermato alla stazione di Comilla. Il treno aveva impiegato quasi una notte intera per percorrere un centinaio di chilometri. Era un continuo fermarsi in una situazione al limite della suspence con i vagoni pieni di gente che già scappava, insieme a viaggiatori usuali. La stazione di Comilla era la prima dopo la partenza, ci si poteva rifocillare perciò decisi di scendere per bere un tè e intanto fare un salto a vedere fuori. Appena sono uscito sono incappato nella sparatoria tra il terroristico e il sanzionatorio. C’era il coprifuoco e i militari hanno fatto capire subito che non scherzavano sparando a casaccio tra i viaggiatori. Era il loro biglietto da visita, infatti dopo i massacri non si sono contati. La pallottola che mi aveva colpito mi fu estratta nell’ospedale locale, il trauma però fu nel rendermi conto che il braccio non si muoveva più. Rientrato in Italia, a metà aprile fui ricoverato al San Filippo Neri di Roma per l’operazione di neurochirurgia al plesso brachiale. La riabilitazione fu faticosa e per fortuna un po’ di ripresa c’è stata, ma l’inabilità è rimasta.

Facendo un passo indietro, cosa aveva spinto il ragazzo di campagna che eri a lasciare il podere paterno di Pizzo (San Secondo Parmense) per dedicarti alla fotografia?
La mia precoce aspirazione era di fare il giornalista. Leggevo appassionatamente i pezzi di grandi inviati del Corriere della Sera come Alberto Cavallari ed Egisto Corradi. Quando, nel ’68, ho fatto il servizio militare in Friuli in un reparto di fanteria ho cominciato a destreggiarmi da autodidatta con la macchina fotografica. La prima macchina più seria, però, l’ho comprata nel ’69 a Roma dopo aver fatto per un mese il cameriere in un ristorante di via Veneto. Ero il classico fotografo di strada, nelle mie foto emergeva il contrasto sociale. Proprio in via Veneto si potevano cogliere gli estremi: il popolano, l’operaio che per caso passava di lì per andare al lavoro e il macchinone di superlusso davanti al Grand Hotel, la mondanità. I giornali aspettavano questo tipo di foto. A incoraggiarmi sono state le redazioni dell’Espresso, del Messaggero con Prunas che proprio quell’estate cambiava formula grafica con il grande Maoloni e anche L’Astrolabio. C’era un sostegno e anche una simpatia, specie per un giovane che era alle prime armi, ma che aveva voglia di fare e anche un po’ di fiuto.