Il Forte Malatesta di Ascoli Piceno è un luogo misterioso e dalla potente energia, intercettata anche da Antonio da Sangallo il giovane nella sua ricostruzione cinquecentesca, quando si affidò alla forma di una stella irregolare.

Nei suoi spazi, in questi giorni, il Forte intreccia due storie che esorcizzano la morte e insieme connettono diverse sequenze temporali: da lato, c’è la narrazione del museo dell’Alto Medioevo con alcuni reperti del sepolcreto longobardo di Castel Trosino, venuto alla luce nel 1893, durante lavori agricoli (oltre ai corredi funerari ci sono anche le oreficerie gote di Arquata del Tronto); dall’altro, ospita una mostra che s’inerpica sui sentieri concettuali del contemporaneo, calamitando a sé, come nume tutelare, l’artista che più ha lavorato intorno all’invisibile, all’idea (anche ludica) di sparizione e ritorno in essere: Gino De Dominicis.

Marisa Merz, Senza titolo, 1968

LA RASSEGNA NAZIONALE che «racconta» quest’anno il Premio Marche nel suo fuoriuscire dalla regione, guidata da Andrea Bruciati, con la collaborazione di Stefano Papetti (dirige le Collezioni comunali di Ascoli Piceno, tra cui la magnifica Pinacoteca e la galleria Licini e nell’occasione è curatore dell’omaggio artistico alla figura di Cecco d’Ascoli, poeta, medico, filosofo e astronomo condannato al rogo dall’Inquisizione nel 1327) si intitola Il tempo, lo sbaglio, o spazio: Gino De Dominicis.

Visitabile fino al 27 marzo 2022, la collettiva prende in prestito il titolo di un’opera che fu presentata nel 1970 alla galleria l’Attico, il grande scheletro con i pattini a rotelle, chiudendo così il cerchio con la necropoli longobarda. Aprendo però un confronto che vede l’artista di Ancona sospendersi e rendersi inafferrabile fra i linguaggi che più hanno segnato il dopoguerra e poi i decenni successivi (in un dialogo virtuale con Prini, Agnetti Manzoni, Pascali, Marisa Merz, Cintoli, ma anche con alcuni pionieri «onirici» come De Chirico e Scipione e, per arrivare all’oggi, Paola Pivi, Stefania Galegati, Diego Perrone.

Paola Pivi, Biscotti, 1996

DE DOMINICIS nel percorso allestito, che «puntella» con continui rimandi e tornando più volte a reclamare la sua presenza, assume le sembianze, – attraverso i suoi disegni che introducono all’inconoscibile – di un deus ex machina o quella di un demone interiore.

«Il concept della mostra – spiega Andrea Bruciati – prende spunto da un’opera in cui convivono la vanitas della vita e la morte, ma anche l’ironia e il cinismo che connota l’uomo contemporaneo. Le tre coordinate da lui condensate, sono proprie della nostra sensibilità, poiché evidenziano il nostro limite e la nostra finitezza e, allo stesso tempo, sono un argomento di riscatto per la nostra stessa natura. De Dominicis, in fondo, è anche un insegnamento a cui tutti gli artisti dovrebbero continuamente guardare: il qui e ora e la capacità, pur sbagliando, di andare oltre se stessi. È sempre andato contro il politicamente corretto, contro un appiattimento al consenso e lo definirei l’ultimo dei romantici».

L’esposizione del Premio Marche tende a rimettere al centro alcune istanze dell’arte contemporanea, non prescindendo più dalla sua figura di outsider. «Ritengo che i grandi maestri siano una calamita sempre attrattiva o non sarebbero tali – continua Bruciati -. Magari non vengono compresi subito. Credo che l’ego straripante di Gino De Dominicis non abbia giovato a intessere delle proficue relazioni.

Ma la sua importanza è evidente per tutta la generazione degli anni Novanta, da Cattelan (l’ultima scultura aerea all’HangarBicocca è una citazione, per fare un esempio) a Pivi, Presicce e molti altri. Scipione e De Chirico, invece, rispondono alla necessità di contestualizzare storicamente la sua figura per troppo tempo rimasta in un limbo, quasi che fosse uscito da chissà quale strano esperimento laboratoriale. In realtà, vi è una sensibilità metafisica e surreale molto pronunciata, che viene rinverdita da De Dominicis e i suoi disegni giovanili sono espressione di un’attenzione evidente al dato del subconscio che, successivamente, oggettivizza nelle tante rappresentazioni totemiche».