A dimostrazione che, come spesso dicevano gli antichi, i nomi hanno a che a fare per vie misteriose con quanto uno fa o è nella vita, o, che, almeno, così ci piace ex post ricostruire, dall’empireo stagionato di quello che ormai viene definito classic rock se n’è andato un signore che nell’anagrafe del destino portava ben scritto il suo percorso: Baker, dunque «fornaio» per cognome. Come minimo uno è destinato a sfornare torrenti di musica, se appena le muse ti hanno dato la fortuna e l’onore di sapere metter mano su uno strumento. Lui ci sapeva metter mani e gambe, avendo avuto in sorte di essere uno dei primi cinque batteristi della storia del rock, con solide conoscenze jazz, e ci aveva saputo aggiungere la sua speciale spezia allo zenzero, il ginger (che in realtà era epiteto per la sua chioma fulva) per almeno sei decadi di vita. Peter Edward «ginger» Ginger Baker se n’è andato il 6 ottobre scorso, a ottant’anni di vita. Resterà, si diceva, come uno dei più influenti e innovativi batteristi della storia delle note popular, perché, come sempre accade in questi casi, è la combinazione tra centratura dello spirito dei tempi, abilità individuale e capacità di intercettare il futuro che fa grande un musicista. Se poi ci aggiungete un’indole piuttosto indomita e un suono immediatamente riconoscibile, per carica energetica, un po’ come successe all’ancor più tonitruante John Bonham, ma con meno finezza, i conti tornano subito. Ginger Baker aveva tecnica ed energia notevolissime, e aveva anche avuto la fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto, in un lampo di mesi in cui in Inghilterra c’era da tenere le antenne tese a captare il nuovo, contribuendo subito, in tempo reale, a iniettare la propria parte personale di novità. Nel caso di Ginger Baker, e a dispetto di una carriera ben più ampia dei suoi primi anni memorabili, il primo nome di riferimento non può che essere quello dei Cream.
POWER TRIO
I Cream: l’invenzione del power trio, in pratica. Dove procedere per sottrazione di almeno una chitarra, o di una tastiera, significava, in modo rivoluzionario per il rock dell’epoca, convogliare le energie in una creatura a tre sponde in cui ognuno interagisse alla pari con gli altri, secondo quel concetto di interplay che nel liminare mondo del jazz era prassi, abitudine e financo cortesia maturati in decenni precedenti, ora riallocati nelle turbolente avventure rock. S’è nominato il jazz: tornerà, e con prepotenza nella vita di Ginger Baker, un po’ come il jazz è sempre rispuntato sotto le dita di un altro grande batterista rock, Charlie Watts dei Rolling Stones. Peraltro suo mentore iniziale. Intanto però diamo conto che i Cream, il più influente power trio della storia del rock, nascono dopo precedenti avventure come batterista «trad» jazz e blues del giovanissimo Ginger Baker: quel mondo tumultuoso che nel secondo dopoguerra aveva assorbito con voracità bulimica tutta la musica arrivata dall’altra parte dell’Oceano sulle macerie ancora fumanti di Londra e delle città inglesi violentate dalla Luftwaffe. Ginger macina molto jazz, poi finisce nelle schiere entusiaste dei Blues Incorporated di Alexis Korner, il bluesman inglese che, assieme al deuteragonista John Mayall, sta forgiando una nuova generazione di musicisti in Inghilterra. Bella palestra, ottimo viatico per la nascita dei Cream, il supergruppo che il blues imparerà a dilatarlo e stiparlo di improvvisazioni para-jazzistiche (ma ad altissimo wattaggio) con Ginger, Eric Clapton e Jack Bruce. Clapton arriva dagli Yardbirds e dai Bluesbreakers di John Mayall, dove peraltro ha incontrato Bruce, gran mano sul basso, bella voce roca. È Bruce che consiglia di includere Baker, che con lui ha condiviso esperienze nella Graham Bond Organization, altro gruppo-palestra della Swingin’ London. Un bel coraggio: sta a significare che Bruce ammira Baker come musicista, mentre nella vita reale i due sono sempre sull’orlo pericoloso dei cazzotti.
Il rock cambia segno, comunque, con i Cream: non più spazio per ragazzini sovraeccitati che ripetono a memoria le brevi hit pop urlando, secondo la precisa sindrome da apparizione dei Beatles, ma un magma pesante e flessuoso al contempo di brani da ascoltare quasi in trance, aperti ad ogni caratura temporale, anche la più dilatata. Qui nasce anche, con Ginger Baker lo «spazio alla pari» per i batteristi, gli assoli da un quarto d’ora che ricordano le prodezze dei gloriosi batteristi swing, i suoi eroi: Buddy Rich e Gene Krupa. Perché nei Cream tutti suonano, nessuno «accompagna». Nella vita fuori dal palco è tutt’altra cosa: Ginger è, si sarà capito, una testa calda che non le manda a dire, i litigi tra lui e Jack Bruce sono furiosi, il seguito ufficiale di quelli iniziati nella Organization. Clapton abbozza, con il suo leggendario aplomb, il conto in banca sale, ma non potrà durare. Ma i dischi vendono bene, escono uno a ridosso dell’altro, ognuno un colpo a bersaglio: dal 1966 di Fresh Cream all’addio, appunto, di Goodbye, sono tutti centri perfetti, compreso ovviamente il capolavoro Wheels of Fire, un disco in studio, uno dal vivo, dietro al mixer Felix Pappalardi dei Mountain. Torneranno assieme una sola volta, alla Royal Albert Hall di Londra, nel maggio del 2005. Nostalgia, tensione, la dimostrazione senile che chi suonava una volta suona ancora ora con rabbia, se vuole. Hanno stabilito un canone rock: il trio tutto elettricità frequentato anche da Jimi Hendrix e dai rocciosi Taste di Rory Gallagher. E via nei decenni da decine di epigoni, sino all’oggi retro maniaco di mille «power trio».
FEDE E AERONAUTICA
È Clapton a mettere la parola fine ai Cream, stressato da un andazzo che lo sta consumando, è Clapton a recuperare saggiamente il furor energetico di Ginger Baker in un altro supergruppo del ’69 che dura lo spazio di una stagione (peraltro massacrante per impegni) e di un disco, nel canone rock un capolavoro: Blind Faith. Ci sono Steve Winwood dei Traffic, ex ragazzo prodigio dello Spencer Davis Group, uno coi tratti delicati orientali e una voce da soulman, Ric Grech dei Family, padri nobili del prog rock, «Slow Hand» Clapton e Baker. A questo punto è Ginger Baker ad avere l’idea del supergruppo, finita l’avventura intensa e bruciante dei Blind Faith : recluta lui nel 1970 Winwood e Grech, e mette assieme una sorta di miniorchestra rock possente. Oltre a lui in scena ci sono altri due batteristi, Phil Seamen e Remi Kabaka. Un unicum nella storia del jazz. Bisognerà arrivare ai King Crimson del 2018 per avere medesime partizioni strumentali. Sono nati gli Air Force, anch’essi destinati a brillare per una sola stagione. Ma i solchi di Air Force, esordio direttamente dal vivo e Air Force 2 rimandano ancora oggi una potenza ammaliante: tre batterie insieme significano una poliritmia infinita, punteggiata dagli sbuffi saturi dell’organo Hammond, e da una sezione fiati che non fa prigionieri, tra loro Graham Bond. Il timido e fragile «non leader» dell’Organization che quando suona ha tutt’altra sicurezza. Baker, è evidente, sta pensando a un «altro» rock, con i tempi lunghi dell’hard bop jazzistico, che ben conosce, e dei Cream, che cerca di dimenticare, ma vicino anche alle radici «afro» del suono. Se ne ricorderà di lì a poco. Perché anche la Air Force fiammeggia intensa, ma si spegne subito.
IN NIGERIA
Il passo successivo di Ginger Baker era già scritto negli eventi precedenti, e ancora una volta ricorda passi seminali precedenti di illustri jazzisti: si trasferisce in Africa. A Akeya, Nigeria. È il 1971, e Africa significa diramazioni infinite di un suono orgoglioso e tumultuoso che ha accolto l’elettricità di Hendrix e dei Cream, di Miles Davis e di James Brown. Tradizione e innovazione, ogni paese la declina secondo la propria ricetta. L’occidente imparerà a conoscerla molto dopo, con le avventure spesso posticce della world music. In Nigeria c’è un personaggio affascinante e inquieto, che sui palchi lascia litri di sudore, una specie di laica icona di libertà per la gente del suo paese tormentato: Fela Anikulapo Kuti. Il «Presidente». Nel ’69, quando i Cream erano ai ferri corti, Fela Kuti era a Los Angeles, a incidere session memorabili. È alla sua corte colorata, libertaria, profumata costantemente dall’odore della ganja, che approda spesso Ginger Baker. Che in Nigeria, peraltro, realizza il primo studio professionale moderno dell’epoca, a sedici piste: è lì che Paul McCartney, al riparo da occhi e orecchie indiscrete, va a incidere il fortunato Band on the Run. È lì che Ginger incide il primo vero disco a suo nome, Stratovarius, uscito nel ’72: voci, percussioni, l’aiuto di Bobby Tench dal Jeff Beck Group e, all’organo, il Presidente dell’afrobeat in persona, Fela Kuti. Il batterista dalla chioma fulva è spesso sui palchi dei torrenziali concerti di Fela: gli piace la dimensione dilatata e sovraeccitata di quelle lunghissime cavalcate sonore, e lascia un bel segno in un disco tutto da riscoprire, oggi, Fela with Ginger Baker Live!, quattro brani infiniti che fanno girare assieme funk, soul, rock, jazz, e radici nigeriane. L’avventura africana, per ora, finisce lì. Ma non in musica. Ginger Baker torna in Inghilterra. Mezzo rovinato dal collasso economico dello studio: continuerà a sostenere che neppure il Baronetto Mc Cartney lo ha pagato, per le session di registrazione di Band on the Run. Chissà se è vero, o se anche questa è una sbruffonata di «braccio di ferro» Baker.
RITORNO A CASA
In Inghilterra una svolta dura, anzi, durissima, per Ginger. In fin dei conti un buon ottanta per cento del suono grande, grosso e saturo dell’hard rock ha radici profonde proprio nella rumorosa matassa di suono dei Cream. Prima cerca di rilanciarsi con i Salt, una sorta di Air Force afrorock riveduti e corretti che non ha lasciato dischi di studio (ma su un live di fortuna ci trovate, ospite, anche il jazzista Art Blakey, forse il batterista più vicino a Ginger, per stile e dinamiche), poi l’incontro con i fratelli Adrian e Paul Gurvitz, che venivano da sostanziose esperienze hard rock: i Gun, e i Three Men Army. Hanno bisogno di uno che pesti anche duro, e Ginger, nel caso, sa essere pesante come pochi. Senza perdere finezza. Provano, e in otto giorni nascono otto brani. È natoa il Baker Gurvitz Army, che farà uscire un primo disco nel ’74. Hard rock, ma impreziosito dai ritmi «afro», dalle temperature funky, da sinuose scie blues. Tutto sembra andar bene, ma Ginger, come già visto, non è uno che proprio stia tranquillo e rassegnato. Rispunta fuori il carattere rissoso (chi vuole approfondire vada a vedersi il docufim dal significativo titolo Beware of Mr. Baker, occhio al signor Baker!), il Baker Gurvitz Army non sopravvive a un terzo disco. A questo punto Ginger Baker fa un rapido passaggio negli Atomic Rooster dell’eccelelnte organista Vincent Crane, altri decorosissimi operai del rock duro con aperture «prog», e poi, incredibilmente, entra per un disco e una stagione in uno dei gruppi apparentemente più lontani dalla sua estetica musicale: gli Hawkwind. Prendono il nome da uno strumento sacro degli indiani d’America, ma nell’Inghilterra dei tardi Sessanta e primi Settanta Hawkwind significa una sola cosa: i signori dello space rock. Che significa brani infettati di bella psichedelia, duri e crudi senza essere hard rock, maestosi light show, strani rumori e frequenze alla Pink Floyd che attraversano il tutto, testi che molto devono alla hard sci-fi, la fantascienza dura e pura e l’iperecologismo futuristico di scrittori come Heinlein. Già fuori moda nel ’69, tutt’ora attivi, nel 2019: quindi perfettamente al passo coi tempi. Evidente che Ginger Baker a far da metronomo preciso e inesorabile a gente paradossale e fascinosa che sul palco parla di astronavi, alieni e stati alterati lo vedi poco. Ma c’è da sopravvivere, e nel 1980, quando esce Levitation,un bel lavoro, col senno di poi, molti sono ben contenti che dietro metalli e pelli ci sia proprio lui, Ginger Baker. Durerà ovviamente pochissimo.
FUGA E RINASCITA
Altro trasferimento di Ginger Baker, ma non in Africa: riappare in Toscana, nel pistoiese, nel 1981. Inseguito dal fisco inglese che gli imputa un centinaio di migliaia di sterline di tasse non pagate. Disavventure da rockstar, ma Ginger in realtà il suo barile l’ha raschiato per bene, e il resto della sua vita sarà una sorta di ritorno, in musica, a quanto lo aveva formato: il jazz, e la matrice del jazz medesimo, quindi Mamma Africa. Intanto per un po’ produce olio d’oliva, antico e redditizio divertissement degli inglesi innamorati della Tuscany. Il primo indizio di rinascita è dell’86, il nuovo sodalizio è con Bill Laswell, camaleontico produttore/bassista/ soundscaper newyorkese abituato a forgiare ogni tipo di musica possibile: Horses & Trees, uscito proprio nel 1986, stabilisce le coordinate del ritorno, e Ginger Baker lo fa alla grande con una miscela di jazz, funk e world music che, in fondo, ha contribuito a inventare. Una delle band di Laswell sono i formidabili Material, in quegli anni, e nell’87 Baker se ne esce con No Material, prima esperienza di avant- jazz, per lui, in cui tutto è improvvisato al momento: con Nicky Skopelitis alla chitarra elettrica, Jan Kazda al basso, il devastante sax di Peter Brotzmann e l’altra chitarra di Sonny Sharrock, metà dei temibili Last Exit. Nello stesso anno è sul palco di Brema, Germania, con la sua neonata African Force per lo Schaumburg Festival: una linea frontale pazzesca di percussioni, l’energia dei Cream coniugata a quella di Fela Kuti e degli Air Force che torna. Queste sono ormai le coordinate: Africa e jazz. Jazz ce n’è molto in Unseen Rain, con il pianista Jonas Johansson e il bassista Jonas Hellborg, ma il colpo da maestro lo piazza poco dopo, formando un sodalizio davvero imprevedibile con Bill Frisell, chitarrista jazz nutrito di ogni possibile musica, a cominciare dal country e dalle colonne sonore, e il bassista Charlie Haden, medesimo amore per il country, un passato a dir poco incendiario a fianco del genio innovatore Ornette Coleman. Il Ginger Baker Trio, come i Cream: ma il titolo, Going Back Home, dice che la casa verso cui si sta tornando è il jazz. E pazienza se qualche colpo piazzato da Ginger è davvero un po’ troppo potente, per un equilibrio cameristico.
L’ULTIMO PERCHÉ
Le cose si precisano e affinano nel ’96 con Falling Off the Roof, Frisell sta facendo le prove generali per la svolta di Nashville e, incredibilmente, tutto funziona con Mr. «mano pesante» Ginger Baker. La griglia del terzo millennio porta un disco nuovo e un gruppo nuovo per Ginger, nel segno del jazz: DJQ20, che sta per Denver Jazz Quintet-To – Octet. Il formidabile Ron Miles alla tromba, l’astro James Carter ai sassofoni ospite, musicisti da Denver che spaziano dal free al bebop: Coward of the Country è un grande disco. Ma è materia bruciante anche African Force, 2001, dove Ginger Baker torna a circondarsi di colleghi percussionisti africani, e lo spirito delle session con Fela Kuti rispunta fuori a ogni secondo di una materia sonora pastosa, flessibile ed espressiva. L’ultimo exploit di Ginger, prima che l’artrite, l’osteoporosi, le sigarette e un cuore acciaccato gli presentino il conto degli anni, è il formidabile Why? del 2014. In copertina una foto con primo piano della bella faccia di Ginger, fiaccata e stropicciata dagli anni, un filo impertinente di fumo che gli esce comunque dalle labbra. Blues, jazz, echi di Nigeria, calypso, il sax di Pee Wee Ellis (Van Morrison, James Brown) sugli scudi, la consueta – ma a questo punto non scontata – panoplia ritmica. Why? sta per «Perché». Già, perché se vanno persone irascibili, scorbutiche e fondamentali come Ginger Baker?