Siamo una civiltà che ama la catastrofe, la cerca e la produce; che sogna l’Apocalisse, alimenta la colpa e la punizione in una frenesia perversa, ossificando l’immanenza della gerarchia e del dominio quasi fosse un dato di natura o un destino. Eppure avrebbe potuto essere altrimenti, ci dice Ginevra Bompiani in L’altra metà di Dio (Feltrinelli, pp. 288, e 19,00). Così come il modello antropologico in cui abbiamo riconosciuto la nostra genealogia umana avrebbe potuto non cercare assoluzioni nella società maschile, aggressiva e gerarchica degli scimpanzé, specchiandosi invece nella società giocosa e sessuata dei bonobo, retta da femmine, altri bivi si sono aperti sull’autorappresentazione degli uomini – maschi, bianchi, occidentali – la cui cultura ha come pietra angolare i tre monoteismi.

Il saggio di Bompiani ci conduce in una vorticosa ricognizione dei racconti di morte e sopraffazione su cui abbiamo eretto le nostre fondamenta e sul piacere che ne traiamo, percorrendo le pallide, preziose tracce che portano al Mutterrecht, il diritto materno individuato da Bachofen nei miti dei popoli asiatici ed europei in epoca neolitica, fino alla figura della Dea Madre partenogenetica, signora della rigenerazione, degli animali e delle piante che ci è stata rivelata dalle scoperte archeologiche e linguistiche di Marija Gimbutas.

Un gioco di rimandi
La mistificazione che ha permesso di dimenticare la civiltà della Madre è stata tuttavia scossa dalle culture che difendono gli ultimi avamposti della biodiversità, contro un’idea di progresso e di consumo illimitato che si traduce in sfruttamento criminale delle risorse e degli esseri, cieca alla bellezza e indifferente alla vita.

Da Sodoma e Gomorra, dal bombardamento di Amburgo a Hiroshima, atti distruttivi, «arbitrariamente crudeli ed essenzialmente inutili», si susseguono senza aver mai avuto la capacità di estirpare il male dalla terra, consegnando agli sterminatori una prova di potenza e ai poeti la capacità di piangere sulle macerie. Alle donne – alla moglie di Lot – resta il guardarsi indietro «per solitudine, per la vergogna di fuggire di nascosto, per la voglia di gridare, di tornare», come nei versi della Szymborska; resta il farsi di sale di fronte all’irrevocabilità del gesto di prepotenza infantile che, mosso dal «puramente distruttivo», ripete e ripete «L’ancora una volta» della distruzione.

«Non per amore delle macerie, ma della via d’uscita che le attraversa» – scrive Ginevra Bompiani richiamando Walter Benjamin – Napoleone volle sventrata la Parigi medioevale, «per sconfiggere le ombre e il segreto delle viuzze tortuose, fare spazio tra le sue macerie, armarla di immense piazze, trafiggerla di viali».

L’amore dell’ordine, della purezza, delle legioni quadrate, delle maiuscole che perimetrano le categorie del Logos, è lo stesso che ha in odio il rigoglio della natura, la libertà dei popoli non asserviti, lo spazio disegnato dagli animali. Cosa fare, davanti alla catastrofe? Padrona di una scrittura cesellata, l’autrice sembra riordinare nel rimpianto le gioie di famiglia, fatte di rimandi, connessioni, gioco di voci che si susseguono, in una planimetria della Terra desolata.

Cosa farsene di pareti di libri, conversazioni trattenute nella memoria, presenze di grandi scomparsi, amici convocati a decifrare un passo di Genesi, a far luce su una parola che inciampa nella traduzione, un tradimento di interpretazione, un resto di analisi? Macerie di vecchie stanze, velluti e arredi impotenti di fronte alla nuova Apocalisse, dove l’angelo benjaminiano, desideroso di voltarsi a ricomporre l’infranto, è spinto non verso il futuro ma verso il pericolo – forse la certezza – dell’estinzione; questa volta non più favola per far addormentare i bambini tremanti sotto le coperte.

Figli di un dio maschio
A salvarci dall’educazione alla morte – titolo del geniale cartone animato con cui Walt Disney negli anni Quaranta rendeva il pervertimento di un’intera generazione di tedeschi sotto il dominio hitleriano – è la possibile rilettura del bivio dove ci siamo persi, addentrandoci nel delirio di potenza. Prima che la narrazione biblica revocasse l’originaria versione del primo capitolo di Genesi, dove Elohim, divinità composta di due forme dell’essere, maschile e femminile, crea un essere umano maschio e femmina che le somiglia, e imponesse la versione del secondo capitolo, in cui un dio maschio e patriarcale crea un uomo dal quale trarrà un frammento di materia destinato a incarnarsi nella parte mancante, la donna, simbolo della colpa ontologica che causa il precipizio nella mortalità. Eva, Hawwà, capro espiatorio, peccato incarnato, timore e desiderio della via di fuga, libertà saputa benché cancellata – proprio come le tortuose viuzze di Parigi sotto i boulevard napoleonici – resta come risposta alla mistificazione.

In un gioco di rimandi che si presta a mille attraversamenti, L’altra metà di Dio è un libro politico e una rilettura che investe e scuote le nostre grandi memorie. «Non cerco la Storia», scrive Ginevra Bompiani, «ma le storie che ci hanno formati nel sonno».