La politica artistico-culturale milanese ai tempi della crisi pare assestarsi su un crinale foriero, ancora in questo inizio di 2014, di sorprendenti novità: il cui fulcro restano le sedi espositive di Palazzo Reale e il suo Museo del Novecento. Già il cosiddetto «Autunno Americano» aveva evidenziato una prospettiva di lettura del contemporaneo spostata sull’economia della proposta affidandosi a mostre che incrociassero opere e artisti notissimi come dire estratti «in convenzione» da collezioni pubbliche e private e in grado di trainare con sé rassegne musicali, incontri cinematografici e letterari. Gli esempi più vistosi sono Pollock e gli irascibili dal Whitney Museum e i 160 Warhol dalla Brant Foundation (le mostre sono ancora in corso). Ma ciò sta accadendo anche con l’antologia delle opere di Kandinskij provenienti dal lascito della moglie Nina al Centre Pompidou di Parigi.

È piacevole, infatti, andare a visitare la mostra, curata da Luigi Sansone, Gillo Dorfles. Ieri e oggi di scena alla Fondazione Marconi (via Tadino 15, fino al 22 febbraio), e accorgersi, senza essere frenati da assurdi sondaggi critici, come l’intellettuale-artista giuliano si ritrovi nell’alveo pittorico dissodato dalle «intuizioni teoriche del grande pittore russo-tedesco».

Proprio dalla mostra si dirama la sonda biografico-artistica di Dorfles, quantunque la sua carriera intellettuale si snodi nell’apparente contraddizione dei ruoli assunti nel corso della sua esistenza centenaria, essendo nato a Trieste nel 1910 da padre d’origine goriziana e madre, invece, genovese. «Non c’è dubbio che io sia un professore di estetica. Ho percorso tutti i gradi per arrivare ad esserlo, conseguendo prima la libera docenza e poi la cattedra in varie università. Resta il fatto che ciò non toglie che io abbia sempre disegnato e scarabocchiato. Che io ricordi da sempre, dovunque e su ogni superficie e oggetto».

Al contrario, l’essere a più riprese e in tempi diversi, artista critico filosofo e studioso del gusto, gli hanno fatto comprendere più di altri le difformità estetiche e culturali che hanno reso il ’900 e oltre, un secolo unico. In questa unicità risiede l’originalità e l’eclettismo di Dorfles che si riverbera in una scrittura critica che mette a referto il come ci si pone «di fronte all’opera d’arte, ma anche di fronte a tutto quello che fa parte della nostra vita».

Da qui sono nati libri di riferimento per generazioni di studiosi come Discorso tecnico delle arti del 1952 e di recente riapparso per i tipi della Marinotti e importante per la messa in discussione del metodo estetico crociano o Il Kitsch del 1968 (data discrimine per azzerare l’alto dal basso e tutti i valori ad essi collegati), o ancora a fare il paio con la propria duplicità intellettuale Il divenire delle arti del 1959 e Il divenire della critica del 1976. Mentre, l’attività pittorica (e di scultore incisore e ceramista), che ha subito per lungo tempo quella che con divertente ironia e a suo onor reale condizione, è definita di clandestinità («ho dovuto attendere la pensione per vedere che la mia pittura veniva presa in considerazione, senza maltrattamenti»), lo consacra come uno degli artisti più avanzati del ’900 per la capacità di sintonizzarsi sui movimenti d’avanguardia internazionali e nazionali della seconda parte del secolo.

Non a caso partecipati da Dorfles, anche da protagonista, come quando fondò nel lontano 1948 – altra data fondamentale della storia italiana – il Mac (Movimento Arte Concreta) con artisti del calibro di Bruno Munari, Atanasio Soldati e Gianni Monnet. «Eravamo tutti concentrati a lavorare sull’astrazione in un ribaltamento di gerarchie e di ruoli con la fino ad allora dominazione della figurazione tradizionale. Non che prima non ci fossero in Italia artisti che lavoravano sul non figurativo e la pittura astratta. Uno su tutti, Mauro Reggiani. C’era di mezzo la politica. Una politica che vedevo come avrei sperato più vicina alle cose essenziale. Ma ciò non è successo e non sta accadendo». Ed oggi, quel nuovo modo di far pittura lo si capisce di più per come fu compressa dall’onda lunga che intreccia nell’arte italiana del secondo dopoguerra Picasso e il Surrealismo e i primi prelievi dalle sperimentazioni letterarie dei grandi scrittori del primo novecento (Joyce e Kafka).

Tutto questo s’irradia nei quadri di Dorfles – la produzione in mostra non è solo storica, ma conta tele anche dello scorso anno – come non mancano nelle macchie, nei grovigli, nelle campiture colorate e astratte riferimenti alla scienza e alla psichiatria, suoi primi e mai dimenticati amori. Qui, è sorprendente il già richiamato legame «organico» e «minerale» con le opere estreme di Kandinskij che flirtano sia con l’egemone e che non voleva saperne nulla di lui, Surrealismo e il nascente «espressionismo astratto» d’Oltreoceano.