George Passmore, che ha appena compiuto 81 anni, e suo marito Gilbert Prousch che ne compirà 80 a settembre, lavorano e vivono insieme dal 1968 a Spitalfields nell’East London, Il mitico duo, conosciuto meglio come Gilbert e George, rappresenta un solco profondo della storia della performance e dell’arte, oltre a essere un unicum esistenziale di eccentrica stranezza.

Incontratisi al St. Martin’s School of Art nel 1967, costituiscono un sodalizio affettivo e artistico anti-convenzionale, in cui la scelta di identificarsi in una unicità, usando solo il proprio nome, alludeva alla volontà di superare il concetto di individualità autoriale. Ora, all’apice di una carriera salacemente controcorrente hanno aperto in quel di Spitalfields, a due passi dalla loro casa georgiana di Fournier Street, il Gilbert & George Centre, un museo sontuoso dedicato a loro stessi, oramai blasonatissimi. Nel 1986, infatti, vincevano il Turner Prize, nel 2005 rappresentavano il Regno Unito alla 51.Biennale di Venezia e nel 2017 erano stati eletti membri onorari della Royal Academy of Arts da cui, nel 2020, si sono dimessi per divergenze istituzionali.

IL GILBERT & GEORGE CENTRE è anche uno schiaffo all’art system che gli artisti hanno sempre definito provincialissimo, visto che sono fortunatamente anti-politically correct. Convertito da un ex birrificio del 1820 vicino a Brick Lane, preserva il legame della coppia col quartiere, in cui scorrazzava Jack lo Squartatore, prendendo vita dal giugno 2020, allorché lo studio Sirs Architects ha iniziato a ristrutturarlo, ispirandosi agli esterni vittoriani della loro casa. Si accede da un cancello verde con le loro iniziali scolpite e sovrastato dal monogramma C III R in oro, che è un omaggio reale, poiché entrambi sostengono la Brexit, sono monarchici e affezionati a re Carlo.

SI PERCORRE IL CORTILE acciottolato dove spicca una magnolia himalayana e si entra nel Centro irradiato da tre spazi espositivi su tre livelli che ospiterà, nel tempo, solo le loro opere. È quasi una operazione filantropica la loro, visto che il G.&G. Centre è interamente auto-finanziato e visitabile gratuitamente, ed è anche un nuovo luogo pubblico importante, in una zona di Londra da sempre problematica e ora rigenerata come neighborough hip e multietnico.

IN QUALCHE MODO G&G rafforzano il loro slogan Art For All, quello del loro manifesto pubblicato nel 1970 in cui dichiaravano di produrre per tutti non solo per l’élite. Le loro opere, infatti, vanno da Drinking Sculptures (aggiudicato da Christie’s nel 2008 per quasi 2,4 milioni di euro), alle stampe e multipli per poche centinaia di sterline. Alla fine degli anni Sessanta, infatti, i G.&G. si reificano come Living Sculptures, eseguendo gesti robotici che si fondevano con contenuti stridenti, elargiti attraverso la parodia, l’humor, il gioco, e che sono usate come strategie di sganciamento dalla relativizzazione dello spazio espositivo classico.

NELLA NOTA PERFORMANCE The Singing Sculpture (1969) in piedi su un tavolo, ballavano e cantavano, con il viso e le mani di entrambi dipinti con vernice metallica per simulare l’aspetto di sculture in bronzo. Uno teneva in mano un bastone e l’altro un guanto di plastica. Erano accompagnati dalle note della canzone di Flanagan e Allen del 1932, Underneath the Arches, il cui testo si riferiva ai senzatetto che allocavano sotto gli archi delle ferrovie e che aveva assunto una sua popolarità durante la guerra come inno di incoraggiamento ai britannici che avevano subito i bombardamenti nazisti.

G.&G. indossavano quella che sarebbe diventata la loro uniforme da «Englishmen» per il resto della loro vita, allusivamente borghese, camicia, cravatta e completo di flanella. Il loro look, tra l’altro, fu ripreso nei ’70 dai leggendari Kraftwerk. La scultura vivente era un atto di svuotamento delle tecniche tradizionali a favore di una espressività che si agganciava alle sperimentazioni corporee, arricchendole di contenuti storici e sociali.

NELLE SUCCESSIVE OPERE e negli anni a venire il duo, privilegiando il tableau vivant, la fotografia modulare, il testo e il film, come atti performanti, rivitalizzavano, con un linguaggio pop e mordace, il legame tra la comunicazione mediale e la realtà, tra l’io e l’alterità. Attraverso la loro ironia beffarda e tagliente, G.&G. concepivano una produzione di forte impatto comunicativo con cui scendere negli anfratti della condizione esistenziale.

La psichedelia delle loro immagini saturanti si ritrova nella mostra, The Paradisical Pictures. Qui ci sente scrutati dalle monumentali stampe fotografiche (realizzate nel 2019) che ripropongono il duo avviluppato in un vortice di fiori morti. In giacca e cravatta, le loro silhouettes severe e fosforescenti sono circondate da fiori giganti, i cui petali sono carnosi o appassiti, sfumati di verde acido, rosa polvere e malva.

G. & G. sembrano soggetti a un’alterazione biomorfica e si innervano in un contrastante teatro paradisiaco. È una foresta incantata o maledetta? Le immagini sono eclettiche e sovrabbondano di allegorie, psichedelia, surrealismo, tragicità e commedia, comunque sia di lembi di fragilità umana intarsiati dal loro ineccepibile humor.