Era il febbraio del 2003. Una folla sterminata di romani affollava piazza San Giovanni. Sul palco Gigi Proietti avrebbe dovuto fare l’elogio funebre di Alberto Sordi. Invece gli dedicò un sonetto scritto da lui. “Io so’ sicuro che nun sei arrivato/ ancora da San Pietro in ginocchione/ a mezza strada te sarai fermato/ a guarda’ sta fiumana de persone/te rendi conto sì ch’hai combinato/ questo è amore sincero, è commozione/ rimprovero perché te ne sei annato/ rispetto vero tutto pe’ Albertone/ starai dicenno: ma che state a fa’/ ve vedo tutti tristi nel dolore/ e c’hai ragione, tutta la città/ sbrilluccica de lacrime e ricordi/ ‘che tu non sei sortanto un granne attore/ tu sei tanto di più, sei Alberto Sordi”.
Probabilmente questa volta non ci sarà qualcuno in grado di offrire dei versi analoghi. Peccato, perché Gigi Proietti, uscito di scena il giorno del suo ottantesimo compleanno, lo avrebbe meritato. La capacità di affabulare, la romanità, lo spirito indomabile e dissacrante, molte sono le affinità tra lui e Albertone, amatissimi dai romani. Ma ancora più tangibili sono le differenze. Proietti è stato un generoso, si è sempre dato al pubblico senza lesinare. Forse per questo il suo nome è più strettamente associato al teatro e alla televisione piuttosto che al cinema. Del resto quella è la storia di Gigi, romano cresciuto a due passi dal Tevere, appassionato musicista sin da ragazzino, al punto che si esibisce nelle festicciole studentesche, poi canta nei night. Una vitaccia che inevitabilmente lo porta a mollare gli studi di giurisprudenza, con grande preoccupazione in famiglia, dove speravano in un posto sicuro. Lui invece punta su altre cose che tra l’altro non conosce perché non ha mai frequentato teatri. Ma il teatro lo incuriosisce. Così si iscrive al Centro Teatro Ateneo dove gli insegnanti non sono proprio male: Giulietta Masina, Arnoldo Foà, Giancarlo Sbragia. E anche al corso di mimica al Centro Universitario Teatrale tenuto da Giancarlo Cobelli. Che lo nota e lo recluta. Sono gli anni ’60.

LE REGOLE andavano ridiscusse, riviste, capovolte. Vale anche per Gigi che incontra un’accompagnatrice turistica svedese, Sagitta Alter. I due si innamorano, decidono di convivere senza sposarsi, avranno due figlie e rimarranno sempre insieme, «siamo antichi concubini», scherzava Gigi. Ma questa era l’unica concessione al gossip. E sempre per rimanere negli anni ’60 Proietti si lancia nel teatro, quello di quegli anni, sperimentale con dibattito finale compreso nel prezzo. Comincia a percepire che la cosa gli sta stretta, pur essendo ormai protagonista negli spettacoli dello Stabile dell’Aquila, tra cui spicca un memorabile Il dio Kurt da Moravia, con Alida Valli e Luigi Diberti per la regia di Antonio Calenda. La rappresentazione è una tragedia in due atti, ma Garinei e Giovannini notano quel giovane e lo scritturano per sostituire nientemeno che Domenico Modugno per Alleluja brava gente accanto a Renato Rascel.

COSÌ, DECOLLA la carriera di Proietti che ha già avuto modo di apparire in tv e in alcuni film, ma, per dirla con i suoi genitori, senza mai entusiasmare. Il teatro invece è un’altra cosa. In collaborazione con Roberto Lerici comincia a scrivere e dirigere i suoi spettacoli, sempre più trionfali. L’anno fondamentale è il 1976. A me gli occhi please (ripreso poi regolarmente nei decenni successivi) segna la svolta riempiendo ovunque teatri tenda e palasport, dando modo a Gigi di essere un mattatore capace di cantare, ballare, mimare, parodiare, monologare trascinando il pubblico verso l’entusiasmo. Nello stesso anno esce Febbre da cavallo, di Steno, in cui interpreta Mandrake, personaggio diventato di culto e ripreso nel sequel del 2002 Febbre da cavallo – la mandrakata diretto questo volta da Carlo Vanzina. Per la verità al momento dell’uscita il film passò tutto sommato nell’indifferenza generale. Poi però, grazie soprattutto alle tv locali e commerciali, è diventato un fenomeno di massa.

DA ALLORA quella di Proietti non è più stata una carriera ma una cavalcata davvero trionfale, segnata da un’infinità di apparizioni televisive con enorme riscontro di pubblico (si dice che Il maresciallo Rocca, poi replicato per diverse stagioni, abbia addirittura insidiato il trono infiorato del Festival di Sanremo). Direzioni di teatri, grandi spettacoli, one man show, sia in teatro che in televisione, solo il cinema era sempre un gradino sotto, nonostante il sodalizio con Carlo Vanzina. Per fortuna la sua ultima apparizione su grande schermo è stata in Pinocchio di Matteo Garrone, una particina, se vogliamo, ma con la possibilità di giganteggiare nei panni di un immaginifico Mangiafuoco che sarebbe piaciuto anche a Federico Fellini, estimatore di Gigi, con il quale non ha mai lavorato, se non per il doppiaggio di Donald Sutherland in Casanova. Sarebbe irriverente salutarlo come lui aveva fatto con Albertone, definendolo Giggione, allora meglio ciao Giggi, con due g, come sarebbe piaciuto a lui.