È un ritratto e insieme un omaggio corale Mura am(o)ur. Le cartoline di un grande giornalista, il bellissimo film documentario a firma di Emanuela Audisio e in onda domenica 21 marzo (Sky Arte ore 21.00; Sky Sport 1, ore 00.30) a un anno esatto dalla morte di Gianni Mura, mancato a 74 anni davanti al mare di Senigallia nella prima fase della pandemia. La voce narrante e fuori campo è di Neri Marcorè, la presenza di Mura si manifesta per epigrafi, didascalie, per folgorazioni rinvenute nelle immagini di repertorio ma la sua traccia, il ricordo o insomma la présence è di continuo riproposta, debitamente celebrata, da quanti hanno conosciuto non soltanto un grande professionista ma uno scrittore decisamente singolare e un uomo, alla lettera, magnanimo. Proprio la sua magnanimità nella accezione classica della grandezza d’animo e, per così dire, della capienza esistenziale, si lega alla scelta di raccontarlo per interposte voci, quelle del «corteo degli amici», sosteneva Roland Barthes, che traducono al futuro la vicenda di qualcuno: innanzitutto sua moglie Paola Gius, poi i colleghi di Repubblica (ma anche del periodico di Emergency e del giornale di strada Scarp de tenis), i cantautori (fra gli altri Vinicio Capossela, Ricky Gianco, Francesco De Gregori, Têtes de bois), gli artisti, gli attori, i ristoratori della sua Milano ma anche di Ischia e Monte Isola (il suo buen retiro), testimoni tutti dell’autentico diorama intellettuale che fu in vita sua Gianni Mura.

Un giornalista legato al proprio lavoro e agli sport elettivi del ciclismo e del calcio, assonante con Gianni Brera ma del tutto diverso e anzi opposto per indole e scrittura da colui che pure riconosceva maestro: l’uno spirito polemico, sarcastico, portato alla parodia e alla invenzione linguistica, Mura viceversa d’indole posata e persino lunare, non meno curiosa di cose e di individui ma sempre velata di ironia, che è il talento di chi guarda il mondo dalla giusta distanza e da un punto di vista che è soltanto suo, di chi non spreca le parole: nel film qualcuno parla appunto di «amore e rispetto delle parole» da parte sua. Fatto sta che scriveva in un italiano di grande equilibrio linguistico e stilistico, capace di punte epigrammatiche ma di estri sempre controllati, del tutto indenne dai neologismi, dai vezzi e dagli ammiccamenti che di solito condannano la prosa dei giornalisti. Mura eccelleva in particolare nell’arte del ritratto (basti ritracciare la corposa antologia pubblicata dal Saggiatore nel 2013, Non gioco più, me ne vado. Gregari e campioni, coppe e bidoni) specie di coloro che riconosceva come suoi affini o paradossalmente come antipodi, ad esempio Pantani che aveva chiamato «Pantadattilo» o l’allenatore del Napoli Ottavio Bianchi così introverso e misurato al cospetto della umanità travolgente, esplosiva, di Diego Armando Maradona.

In effetti Mura amava nel profondo la vita ma non era un vitalista proprio perché la amava di un amore mai esibito e, semmai, tradotto in gesti silenziosi, in parole laconiche e comunque pronunciate sottovoce. Anche trattando di enogastonomia (con Paola sua moglie, nelle celebri rubriche del Venerdì di Repubblica) il suo sguardo va al cibo e ai vini nella misura in cui essi rimandino ad uno scambio, al rito della commensalità che come tale li fa degni di interesse e di amore: un vecchio campione e suo amico, Michel Platini, sceglie infatti nel documentario per salutarlo la forma del brindisi, mentre i compagni di osteria non ricordano un gaudente ma anche a tavola un esempio di compiuta humanitas. Questo era il tratto che anche il più frettoloso dei lettori, aprendo su Repubblica la pagina dei Cattivi pensieri, riceveva all’istante sentendosene rispettato e alla lunga intrigato, se ancora nel film Aligi Pontani ricorda come Mura fosse curioso soprattutto di quanto riguardasse «l’altra parte», cioè la parte del lettore.

Amava specialmente gli chansonnier e i poeti francesi, una sequenza del documentario indugia sullo scaffale in cui, oltre alla «Targa Tenco» di cui andava orgoglioso, si vedono i volumi di Apollinaire, Eluard, Aragon insieme con i dischi di Brassens, di Brel, di Léo Ferré, di Piaf l’oiseau de Paris: fatto sta che era stato vaccinato a vita contro il male, oggi più di sempre rovinoso, della identità e a un certo punto, in un filmato di repertorio, giura di preferire di gran lunga i Pirenei alle Alpi, che per lui sono invece sempre troppo piene (dice con grazia ineffabile) di bambini biondi, di mucche bionde e anche di impianti sciistici, qui lo dice con sgomento, altrettanto biondi.

Quando vinse nel 2015, primo e unico non francofono, il premio intitolato al grande Antoine Blondin (al Tour de France, Mura lo vedeva “un faro nella scogliera”) molti si accorsero che quello poteva essere un suo doppio francese o comunque un consanguineo perché Blondin, con un carattere molto più espansivo e talora irruento, era stato anche lui un poligrafo, un giornalista sportivo (ciclismo e rugby le discipline predilette), uno scrittore di racconti e romanzi, infine un vero e proprio poeta dei bistrot dove amava condurlo la sua musa inquieta e buissonnière dicono in Francia cioè vagabonda, scanzonata.

Pari a Blondin, anche lui preferiva la vecchia Olivetti 32, diffidava del computer e nel documentario racconta l’aneddoto secondo cui in sala stampa c’è sempre una ragazza che appena lo vede battere sui tasti della vecchia Olivetti gli si avvicina chiedendogli se per caso non ha paura di infastidire tutti gli altri in silenzio, con quel suo baccano, e allora le risponde imperturbabile che sono invece quegli altri a infastidire lui, con tutto quel silenzio. È un aneddoto che somiglia a Gianni Mura, qualcuno per cui è lecito sul serio provare nostalgia e insieme una grande malinconia, la quale corrisponde al sentimento umano che segnala un vuoto, una mancanza.