Luciano Del Sette

Amicizia è una parola che va usata con cautela e onestà. Dunque sarei incauto e per certi versi disonesto se, nel raccontare alcune cose di Gianni Mura, mi annoverassi tra gli amici, o dichiarati tali, che hanno tessuto le sue lodi in mortem.

Perché, allora, scrivo di lui? Perché un decennio di conoscenza, un giornale, due libri, molte telefonate e qualche pranzo insieme a Torino non mi hanno consegnato il ricordo del formidabile cronista del Tour e dei campi di pallone. Ma di un uomo convintamente di sinistra, senza etichette. Lo era, Gianni Mura, in ciascuna delle sue passioni, sovente appena accennate negli articoli commemorativi dei giorni scorsi.

Di quelle passioni, mai vissute al risparmio, lui ha scritto, parlato, discusso per una vita intera. E in un caso, quello che ci ha fatto incontrare, pagato il prezzo ingiusto dell’amarezza.

Emergency
Nel 2011, Gino Strada gli chiese di prendere la direzione, non retribuita, di E, il nuovo mensile di Emergency. Gianni disse subito di sì, a un patto: essere direttore sul serio.
Nella sede milanese presiedeva le riunioni di redazione, montava e smontava ogni numero, si leggeva tutti gli articoli da cima a fondo, molti sulla terrazza dove poteva sfogare l’amato vizio del fumo. Ero tra i collaboratori, capitò che ci fermassimo a parlare. Una volta mi fermò: «Se ti interessa il calcio, secondo me sei del Toro».

Vere entrambe le cose. Il giornale, venticinquemila copie mediamente vendute, cifra già allora non piccola, venne fermato dal direttivo di Emergency nel 2012: i soldi andavano spesi per gli ospedali. Nessuno chiese il parere di Mura; nessuno lo ascoltò mentre sosteneva che i reportage di E mettevano sotto gli occhi dei lettori le realtà dove l’organizzazione operava, ne erano lo specchio e la voce, aiutavano a capire cosa si nascondesse dietro le guerre e le tragedie umanitarie.

Anche anni dopo, ogni volta che ci incontravamo, i suoi discorsi finivano per tornare lì. Lui cambiava faccia, guardava da un’altra parte. Era una parentesi impossibile da chiudere.

I libri
Dei tanti libri firmati Gianni Mura, due hanno contribuito ad avvicinarci.
Il primo, Non c’è gusto. Tutto quello che dovresti sapere prima di scegliere un ristorante, edito da minimum fax, invitava a ignorare le guide, i falsi profeti dei fornelli, trip advisor; amava le trattorie e la cultura materiale del nostro territorio, affondava la punta dell’ironia dentro la moda assurda di fotografare i piatti.
Il libro era nato da decenni di cene di lavoro e dalla rubrica Mangia & Bevi, in coppia con la moglie Paola, per «Il venerdì di Repubblica». Ne parlai sul «Manifesto».

E fu così che divenni Paola. «Domani vengo a Torino, devo recensire un ristorante, passo a prenderti». Seduti a tavola, Gianni mi spiegò che c’erano varie e vari Paola in giro per l’Italia. Sostituivano la moglie, a volte desiderosa di una pausa dietetica. Da lei ricevette una chiamata pochi istanti prima di ordinare. Tornò sorridendo «È un rito, mi chiama sempre per sapere cosa c’è nel menu. Oggi mi ha detto che devo lasciar perdere i fritti».

Mangiò dall’antipasto al dolce mentre io, provando un vago senso di vergogna, mi limitai a un secondo e contorno. Di ciascuna portata sapeva ingredienti, origini e varianti della ricetta, storia. Portarono una bottiglia di vino rosso, la toccò con il palmo della mano, chiese di metterla qualche minuto in frigo per farle raggiungere la giusta temperatura.

Il secondo libro, Confesso che ho stonato, Skira Editore, uscì nel 2017. Il titolo onorava la straordinaria negazione vocale che l’autore portava con sé dalla nascita, in contrasto con l’altrettanto straordinario amore da lui nutrito per la musica.

Le canzoni
Quali fossero i generi che Mura preferiva fu oggetto di belle chiacchiere, tempo dopo, di nuovo in una ristorante torinese e nei panni di Paola. Da bambino aveva sentito i carabinieri della caserma di suo padre maresciallo cantare Calabresella e La bela Gigogin; poi, alla radio, Jula De Palma, Modugno, Nilla Pizzi, Claudio Villa. Negli anni del liceo, la scoperta di Jacques Brel, George Brassens, Sergio Endrigo, Luigi Tenco; all’Università, il vento della politica, «Ma nei cortei non c’ero, cominciavo ad andare dietro al Giro d’Italia per la Gazzetta», lo spinse verso Fausto Amodei, Michele L. Straniero, Sergio Liberovici, cioè il Cantacronache.

Diffidato dall’aprire bocca ogni volta che una nota risuonava, Mura era un’autentica enciclopedia della canzone d’autore e conosceva a memoria i testi delle canzoni di tutti i festival di Sanremo.

Gli amici fraterni, divenuti tali grazie alla musica, si chiamavano Giovanna Marini, Riki Gianco, Enzo Jannacci, il cittì Bearzot adoratore del jazz, Maria Carta ed Elena Ledda… Di fonte a una tartare di tonno, mi chiese «Tu sei intonato?». Gli risposi che sì, ero intonato e suonavo la chitarra. Fermò la forchetta, «Mi hai fatto passare un po’ di appetito». Poco, beninteso.

Cantava Jacques Brel tradotto da Duilio del Prete, uno che a Mura piaceva «Io per l’ultima cena voglio che si beva quel vino fatto d’uva/ quel buon vino da messa da rallegrare un boia/ E voglio si divori dopo qualche sottana/ la gallina fagiana che ruspava nell’aia/ Poi voglio essere portato in cima a una collina/ a vedere i miei boschi e dormire un sonno accorto».
Ciao, Gianni. Capiterà di rivedersi.


Pasquale Coccia

Gianni Mura se ne è andato il primo giorno di primavera, stroncato da un infarto. Era a Senigallia per respirare l’aria dell’Adriatico, a causa di una polmonite. Seguiva con attenzione la pagina sport di «Alias» e a volte prendeva spunto per la sua rubrica domenicale Sette giorni di cattivi pensieri, citando la fonte (tra i pochi). L’ultima volta che lo abbiamo incontrato per un’intervista sui cento anni dalla nascita di Gianni Brera (Gianni Brera l’irripetibile, «Alias» del 7/9/2019) ci disse: «Proponete cose interessanti su «Alias», però sul quotidiano mancano le pagine dello sport», un monito per noi.

La sua schiettezza era disarmante, spiazzava soprattutto gli ipocriti o quelli che tentavano di imitare il suo stile e non riuscivano. Mura lo fece una sola volta imitando Brera con il suo primo articolo, quando era entrato alla «Gazzetta dello Sport», il direttore Gualtiero Zanetti glielo cestinò. Capì la lezione.

In tanti dopo la sua morte hanno scritto articoli sinceri, altri traboccanti di elogi, a firma di coloro che nei suoi confronti provavano invidia, perché volevano essere tutti Gianni Mura. Tra le righe di quegli elogi spropositati, sono trapelati piccoli rancori, perché Gianni Mura non si stancava mai di ricordare di scrivere chiaro e di usare i termini della lingua italiana.

Certi strafalcioni non li perdonava e li rimarcava nella sua rubrica, suscitando le reazioni dei punzecchiati, i tanti autoproclamatisi Omero del calcio che si esprimono con la lingua rozza del Bar Sport. Scorrendo gli articoli commemorativi, ci siamo segnati alcuni termini, che nascosti tra mille parole elogiative lo hanno definito: riluttante, ruvido, brusco, idiosincratico, scontroso, burbero.

Gianni Mura non sopportava i giornalisti sportivi ruffiani, cortigiani, ipocriti, adulatori, narcisi, mediocri e gli inclini alla posizione supina per natura e professione. Era timido, ma non si faceva intimidire dagli uomini del Palazzo dello sport, era uno con la schiena dritta.

Allergico alla chiacchiera sportiva in voga nei salotti televisivi del Bar Sport Italia, non risparmiò critiche neppure a Gianni Brera, quando pagato a peso d’oro frequentava il «Processo del Lunedì» di Biscardi. Negli ultimi tempi lamentava che i breriani erano sempre meno, anche i muriani di facciata scompariranno in fretta e dimenticheranno presto Gianni Mura. Egli amava le letture, la poesia, gli epigrammi e gli anagrammi, la musica, le serate in compagnia, il buon vino e tirare tardi la notte, alla maniera di Osvaldo Soriano. Come El Gordo, Mura con ironia si definiva Palla di Lardo.

Alla fine dell’intervista su Gianni Brera, gli chiedemmo che cosa gli sarebbe piaciuto fare nella vita se non avesse fatto il giornalista: «L’insegnante di francese» rispose. Sarebbe stato un bravo docente anche se ostile a salire in cattedra. Lo salutiamo, senza dimenticarlo, come avrebbero fatto i suoi studenti: arrivederci professor Mura.