Rispetto agli oltre cinque triliardi di dollari destinati negli Stati Uniti all’economia, i 750 miliardi del Next Generation europeo sono una piccola cosa. A Gianfranco Viesti, docente di economia all’università di Bari e autore di Centri e periferie. Europa, Italia Mezzogiorno dal XX al XXI secolo (Laterza) chiediamo se saranno sufficienti per la “crescita”. “Dipende da come saranno spesi. Ai fondi stanziati dalla Commissione europea vanno aggiunti quelli nazionali – risponde – Nel presidente Biden vedo tuttavia una capacità di intervento molto maggiore rispetto a quella che c’è oggi in Europa. Dobbiamo essere più ambiziosi. Alla crescita descritta come sostenibile ecologicamente dovrebbe aggiungersi una inclusiva socialmente. Per crescita oggi si intende il recupero del gap di produzione provocato dal Covid. Non basta senza maggiore inclusione dei cittadini: la possibilità di vivere meglio, sia in senso materiale con salari decenti, sia in senso immateriale con un’istruzione, salute, partecipazione alla vita collettiva. Il piano europeo non risolve i problemi, ma potrebbe essere un primo passo importante per rilanciare l’idea dell’Europa.

Con quale progetto sociale?
Le difficoltà del progetto comune vengono dal fatto che tanti europei si sentono privati del futuro. Percepiscono una diseguaglianza di riconoscimento e maturano anche posizioni politiche di aperta contestazione, pericolose. Il progetto europeo avrà un futuro, spero, riuscendo come in passato a determinare benefici per tutti gli europei e non solo per i ceti medio-alti che sono stati quelli nel ventennio trascorso più favoriti dai cambiamenti della tecnologia e dell’economia. Il Covid rischia di esasperare queste fratture.

Nel piano di ripresa e resilienza del governo Draghi si sostiene che gli investimenti porteranno 750 mila occupati in cinque anni. Solo il primo anno di pandemia ha creato 950 mila senza lavoro. Che tipo di occupazione è quella prevista dal piano?
È una grande incognita. Se fosse un’occupazione diversa, questa stima modesta quantitativamente andrebbe letta insieme a un miglioramento qualitativo. Occupazione migliore significa a tempo indeterminato, con condizioni migliori di lavoro, sia nel privato che nel pubblico. Spero che il piano di ripresa riesca a provocare una grande iniezione di fiducia, aspettative diffuse di miglioramento; e determini una nuova stagione di investimenti da parte delle imprese. È la leva pubblica che può cambiare lo scenario: sia dal punto di vista del sentimento psicologico generale, sia attraverso azioni specifiche. Questo è il momento più difficile per attendersi investimenti spontanei da parte delle imprese, vista l’incertezza. L’azione pubblica è decisiva.

Se e quando cambierà il blocco dei licenziamenti quali potrebbero essere gli effetti sulla ripresa?
Non lo sappiamo, c’è molto timore perché soprattutto nei servizi e nelle piccole imprese potrebbe esserci una sensibile distruzione di posti di lavoro. Sappiamo che una possibile crisi occupazionale sarà selettiva. Non me la aspetto nell’industria che funziona abbastanza regolarmente, non nell’edilizia che riprenderà. Il nodo sono i servizi alle persone a cominciare da commercio, alberghi e ristoranti. È una situazione nuova: nelle recessioni precedenti crollava l’industria mentre i servizi tenevano. Ora è diverso. È questo che preoccupa molto. Ma non facciamo i profeti di sventura. Nell’estate dell’anno scorso c’è stata un rimbalzo importante. Potrebbe ripetersi.

Il governo punta a una conversione sociale ed ecologica della crescita economica. Non c’è il rischio che sia solo un restyling “green” e digitale della produzione?
Sì, questo è il difetto d’origine di questo piano creato in un paese molto poco abituato a pensare al proprio futuro che ragiona solo sui tempi brevi. È stato approvato da un governo tecnico senza una discussione pubblica. È un errore grave: una discussione pubblica avrebbe potuto produrre non solo un miglioramento di molti aspetti tecnici, ma anche una maggiore condivisione.

Ma c’è un’idea di paese da oggi al 2026?
Non l’ho trovata, ma un’immagine complessiva non c’era nemmeno nel piano di Conte. Non è difficile capire perché. È il risultato del fatto che non si parla di futuro da vent’anni. Se negli anni Settanta c’era una dirompente voglia di cambiare le cose, oggi viviamo in un periodo di eccesso di adattamento alla realtà. Tuttavia, mettendo insieme i vari pezzettini del piano, si potrà costruire un quadro d’insieme più positivo.

Si preparano 82,7 miliardi per l’avvio di 57 nuove grandi opere, si parla di nuovo di commissariamenti e “semplificazioni”. In questo contesto che cos’è uno sviluppo sostenibile?
Si finanziano i grandi collegamenti ferroviari. Se avessi fatto io il piano avrei investito molto di più nelle ferrovie regionali e soprattutto sulle reti urbane. Avrei anche dedicato molte più risorse per interventi integrati fisici e immateriali nelle città. Le città sono il punto decisivo dell’Italia perché sono i luoghi dell’esclusione sociale e della diseguaglianza, ma anche il possibile terreno di una nuova occupazione terziaria. Vedremo. La consegna del piano a Bruxelles non chiude il discorso. Bisognerà vedere come sarà attuato e quali saranno gli effetti dei progetti. I prossimi 12-18 mesi saranno molto importanti anche per indirizzare in maniera opportuna le risorse.

Il piano dovrebbe destinare il 40% dei fondi al sud, ma ci sono molte incognite. Ci aiuta a fare un po’ d’ordine?
Non mi pare che ci sia ancora un quadro chiarissimo. Ci sono cifre sui totali, ma manca ad esempio l’indicazione di quanto sarà speso nel Sud per i nuovi progetti, escludendo quelli “vecchi”, cioè gli interventi per cui le risorse comunitarie sostituiscono fondi nazionali già stanziati. Vorrei poi capire come si arriva a questi 82 miliardi, con una tabella precisa che individui i concreti interventi localizzati nelle singole regioni.

E questo non c’è?
A questo dettaglio no ed è importante. Le cose non cambiano con i soldi, ma con buoni progetti. Prendiamo la transizione verde. Il Sud potrebbe diventare il cuore del progetto: non solo produrre energia ma sviluppare tecnologie e imprese nelle rinnovabili così come nell’economia circolare. In che modo i rifiuti da tragedia diventano un’occasione di buon lavoro e buona impresa? E in che modo sui grandi servizi come scuola e sanità si intende riequilibrare gli effettivi diritti di cittadinanza, oggi assai diversi? Questo non dipende solo dagli investimenti sulle case delle salute o sull’edilizia scolastica, ma anche dalle risorse correnti.

Ancora prima di quella del Covid la crisi si è fatta sentire anche nelle regioni più deboli del Centro-Nord. Come è possibile affrontare questa situazione?
Sono proprio queste difficoltà a indicarci che non possiamo permetterci il lusso di restare senza una politica industriale, né affidarla solo agli incentivi agli investimenti. Situazioni come quelle delle Marche che sono state un modello felice di integrazione industriale e di sviluppo senza fratture, oppure dell’Umbria, non possono essere risolte senza una politica industriale centrata sull’innovazione. Lo stesso vale in Piemonte, un’altra regione colpita dagli effetti dell’ultimo ventennio. Non sono storie del passato. Tra qualche mese dovremo affrontare il caso automobile: la riorganizzazione di Stellantis negli stabilimenti italiani.

Anche se Fca ha preso 6,3 miliardi dal governo “Conte 2”?
Politicamente questo è un punto dirimente. L’idea di incentivare le imprese per fare solo quello che vogliono non porta lontano. Oggi si tratta di disegnare un ruolo molto più attivo del pubblico, capace di orientare gli investimenti delle imprese, indicare missioni, creare opportunità. Volere un’economia digitale non significa adottare le nuove tecnologie, ma essere parte della loro produzione. L’economia delle rinnovabili non è piantare pale eoliche ma creare una capacità tecnologica e produttiva.

La pandemia ha rivelato la crisi nel rapporto tra stato e regioni nella sanità e nella scuola. Il piano del governo non ne parla. Lei ritiene che sia necessaria una riforma del titolo quinto della costituzione per evitare il caos delle autonomie differenziali regionali?
È un problema serissimo. Parte della soluzione può essere di tipo giuridico istituzionale, come una clausola di supremazia. Resto però convinto che il nodo sia di carattere politico. L’eccesso di protagonismo dei presidenti delle regioni è il frutto contemporaneo della debolezza dei governi nazionali e di quella dei partiti che creano dialogo e condivisione tra le élite locali e nazionali. Questo problema non si risolve senza rafforzare le istituzioni politiche che tengono insieme il paese. Quando sento “le regioni pensano” mi viene la pelle d’oca perché sono di colore politico diverso. Che prevalga quasi uno spirito di corpo rispetto al confronto politico mi pare sia la spia del problema.