«Romanzo criminale è un ragazzo in ottima salute anche se, per la sua età, ha una responsabilità imbarazzante. È ormai diventato un brand. Quante volte lo si evoca per parlare di malaffare e non solo? Detto questo, sono felice che ad ottobre, alla Casa del cinema, sia stato celebrato, non senza imbarazzi. Ho ricevuto una serie di elogi che solitamente si tributano ai defunti. A un certo punto ho dovuto ricordare di essere ancora vivo». Romanzo criminale, il romanzo bestseller ispirato alle vicende della Banda della Magliana, ha compiuto vent’anni. E questo compleanno è l’occasione giusta per fare due chiacchiere con il suo autore Giancarlo De Cataldo, magistrato da poco in pensione, prolifica penna da un paio di mesi a questa parte volto Tv Rai per la serie Cronache criminali.

De Cataldo, come ha conosciuto la Banda della Magliana?
Da magistrato di sorveglianza incontrai un pentito che era stato nella Banda. Per larga parte non fu creduto. Da giudice penale poi, non è che mi andai a cercare il processo. Fui però chiamato a presiedere la Corte d’Assise il giudice Francesco Amato, un uomo di grande esperienza che si era occupato di Br e Nar. Ero il suo giudice a latere. Si trattava di un «processaccio» temuto nell’ambiente giudiziario romano, per pericolosità degli imputati e per mole. La sentenza finale, pronunciata nel luglio del 1996, fu di oltre mille pagine.

Cosa capì durante il processo?
Via via mi accorsi che quella era una storia che intrecciava un racconto della vita italiana. Una roba che inseguivo da anni. Dopo aver scritto Romanzo criminale ho capito che la mia vocazione era «romanzare» la Storia. Una cosa di stampo ottocentesco.

Qual è stato il primo personaggio disegnato con la penna?
Ispirato da foto contenute negli atti processuali, scrissi Dandi’s blues, un capitolo che raccontava l’ultimo giorno di vita di questo personaggio. Il racconto uscì firmato nel 1997 da «Anonimo Romano» sulla rivista Lo Straniero di Fofi. A Goffredo piacque e mi invitò, con lungimiranza, a concentrarmi su questa storia. Seguirono quattro anni di scrittura e uno di riscrittura.

Come andò?
La prima versione oggi potremmo definirla una sorta di Gomorra. La dialettica con lo Stato non c’era. Fu il grande Severino Cesari – fondatore della collana Einaudi Stile Libero – a consigliarmi di aggiungere qualcosa. Severino mi chiese: «Cosa faceva lo Stato mentre questi banditi scorrazzavano per Roma?». Nacque così il personaggio di Scialoja, il commissario che porta l’antagonismo dello Stato ai delinquenti e il manoscritto passò da 350 ad oltre 600 pagine.

Quali erano i punti di riferimento ideali durante la scrittura di Romanzo criminale?
In Romanzo… cercavo un rovesciamento del punto di vista. Questo rovesciamento era figlio della lezione di Ugo Pirro, premio Oscar per la sceneggiatura di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Con lui avevo fatto scuola di cinema. Pirro raccontava che agli americani faceva impazzire non tanto l’idea che un poliziotto fosse pagato per scoprire dei delitti mentre in realtà ne commetteva uno, quanto l’idea che da colpevole accumulasse indizi contro di sé per essere smascherato. Un doppio paradosso-rovesciamento, insomma. A posteriori, mi sono reso conto che raccontavo una epopea dal punto di vista dei cattivi, ribaltando la tradizione del romanzo poliziesco che ha per protagonista un investigatore. Da James Ellroy, invece, ho preso il racconto dell’accoppiata crimine-politica. Ho così realizzato un affresco storico in cui si intrecciano le stragi di Stato e il caso Moro con le vicende di questa banda reinventata. Questi erano elementi tipici del romanzo di formazione dell’Ottocento. Nel libro cito poi espressamente L’educazione sentimentale di Flaubert.

In che punto?
In chiusura, quando Scialoja e Patrizia si reincontrano dopo anni. I francesi se ne sono accorti. Con mio grande piacere.

Libro, film, serie tv. Su «Romanzo criminale» non sono mancate le polemiche sulla rappresentazione del «male». Come ha valutato questo tipo di dibattito?
Quel tipo di questione – né nuova e né originale – mi è stata posta più e più volte. Il male ha degli aspetti seducenti. Friedrich Schiller lo paragonava ad una tigre: un animale pericolosissimo con un meraviglioso mantello. Sul film arrivarono diverse critiche, tra cui quelle de Il manifesto. Ciò che è poi esploso con la serie è stato poter raccontare brandelli di storia attraverso fatti criminali. Romanzo criminale ci ha fatto capire che quel processo era già in atto. Penso alla Bologna di allora con Carlo Lucarelli o Loriano Macchiavelli. Andando indietro nel tempo, penso alla Milano di Scerbanenco o alla Sicilia di Sciascia. Romanzo criminale è quindi originale nel porre la «questione mafia» a Roma. Una rivelazione. Non una scoperta.

Nei primi anni Duemila, quale immagine c’era nella città di Roma rispetto alla Banda della Magliana? E alla criminalità organizzata più in generale?
A Roma, il fenomeno della Banda – una organizzazione che abbracciava borgatari e figli di impiegati – è stato a lungo negato. Quello è stato un tentativo di impiantare una mafia a Roma in una stagione irripetibile. Tentativi di pari forza non ce ne sono più stati. Questo non vuol dire che nella capitale non siano presenti interessi e gruppi mafiosi.

Ecco, veniamo all’oggi…
C’è una situazione di estrema frammentazione in cui gli equilibri fra clan – italiani ed etnici – si contrattano per fare soldi in modo criminalmente intelligente. Le mafie continuano ad avere dalla loro la liquidità e la velocità delle transazioni. Per questo sparano di meno. In generale, per capire cosa accade adesso mi concentrerei sul Pnrr.

Undici anni dopo «Romanzo Criminale» scrive con Carlo Bonini «Suburra». A fine 2014, scatta l’operazione «Mondo di mezzo», mediaticamente conosciuta come «Mafia capitale». Ad agosto 2015, a don Bosco, c’è il funerale-show di Vittorio Casamonica. Se «Romanzo…» guardava al passato, «Suburra» è un racconto in presa diretta, se non anticipatorio, della realtà romana. Come avete lavorato alla stesura?
Suburra mette in scena un livello di efferatezza che in «Mafia capitale» non c’è stato tant’è che l’associazione mafiosa è stata negata proprio su questo aspetto, controverso, del tasso debole di violenza. Al tempo della Magliana ci sono stati tantissimi morti. In quello di Suburra no. Io non ho avuto polemiche su Suburra. Il fascino di un personaggio come il Libanese – in termini di percezione letteraria – è molto più alto di quello di uno Spadino. Ho avuto invece altri due tipi di polemiche.

Ce le racconti…
Due cose di segno opposto. La prima: aver attinto a delle fonti coperte per raccontare un’inchiesta in corso. La seconda: aver sparato nel mucchio e scatenato un’inchiesta perché dicevamo che a Roma c’era la mafia. Due cose contraddittorie. E false. Si tende a diffidare della capacità autonoma degli scrittori di riflettere sulla realtà reinventandola.

Nella storia italiana, non sono mancati giudici – penso a Dante Troisi – che si sono misurati con la letteratura «scandalizzando» l’opinione pubblica. Cosa ci dice sul rapporto giustizia-letteratura?
Sulla figura del magistrato grava un’ipoteca di origine religiosa e psicoanalitica. Un magistrato è visto come colui che incarna il «giudizio» e rappresenta in Terra la legge del Padre, concetto che rimanda a Dio. Per questo quando si mescola con l’attività artistico-letteraria la cosa suona strana. Il magistrato è ben accetto quando mette in galera i poveracci e tutela l’onorabilità dei potenti. Se rompe questo schema diventa qualcuno da ostacolare. Ho sempre diffidato del magistrato chino sulle proprie carte indifferente a ciò che c’è oltre la finestra, perché il diritto si forma nella Storia e nell’esperienza. Non solo sulle carte.