Quanti tentativi eruditi di approssimarsi al «mestiere di scrivere» hanno finito per trasformarsi in squisiti diari di lettura? Non corre questo rischio Gian Luigi Beccaria, da decenni, per lavoro e per vocazione, un grande lettore. «L’uomo vive in gruppo perché gregario, ma legge perché si sa solo»: questa citazione da Come un romanzo di Daniel Pennac («diario» di lettura del 1992 molto popolare che si concludeva nientemeno che con un decalogo dei diritti inalienabili del lettore) accoglie sin dal primo capitolo Il pozzo e l’ago Intorno al mestiere di scrivere (Einaudi, pp. 159, € 18,00) nel novero di questi preziosi slittamenti saggistici. Partendo dalla figura dello scrittore come protagonista di un conflitto irriducibile con la lingua – una posizione che già di per sé basterebbe a spazzare via fiumi di inchiostro sull’idea di «scrittura creativa» – Beccaria compie con la consueta freschezza un breve, densissimo excursus sulla scaturigine del presupposto conflitto: lo stile. Il rifugio «inventato da chi aveva poche idee», nella celebre definizione di Stendhal; quel prezioso «lavorio sul testo», dice Beccaria, che gli scrittori affidano non al proprio talento, bensì al gesto ripetuto dell’artigiano (e vengono chiamati in causa Manzoni, Calvino, e Gadda, con le loro soluzioni diversissime, ma anche Bufalino, e Sciascia nel suo raccogliere la sfida stendhaliana per una ricerca fatta di «rinunce alla tradizione»).

Tra i passaggi più interessanti, quello dedicato al problema della «esecuzione» nei testi letterari, ovvero l’andamento musicale (cadenza, modulazione del tono) che accompagna la scrittura alle soglie della poesia e che Beccaria identifica come il segno distintivo del buon scrivere: «Ogni tipo di prosa, se ben elaborata, cela un’esecuzione».

Senza cercare definizioni, e senza mai cedere alle tentazioni tassonomiche anche nei passaggi più accademici, completamente privo di sentimenti nostalgici nei confronti della grande tradizione letteraria novecentesca, Il pozzo e l’ago è un lavoro lucidamente lontano dallo spegnimento di ogni passione, proteso verso quella malìa inspiegabile che avvince l’uomo alla lingua rivelatrice della poesia, in ideale sintonia con il noto aforisma borgesiano: «Che altri si vantino delle pagine che hanno scritto. Io sono orgoglioso di quelle che ho letto».