Un affocato mezzogiorno di fine luglio del 1978. Un venerdì a Milano. Per strada nessuno. La milanesità era tappata in casa con l’aria condizionata o in fuga sulla strada della Riviera. Camminando nella parte in ombra di via Meravigli, l’antica strada dei casini di lusso, rifilata da un vuotissimo tram scampanellante nel delirio nella immobilità del tutto. Sul marciapiede avanzavano due tipi in maniche di camicia. Uno basso e uno alto. Parlavano esaltandosi, agitando le braccia. Facevano due passi e si fermavano, fronteggiandosi, arringandosi, come uno facesse il comizio all’altro. In realtà quello che parlava di più era il tipo basso, rotondo, tracagnotto. Il più esagitato, con una faccia tumefatta da pugile suonato, era Gian Carlo Fusco, un mito del giornalismo. Esemplari i suoi articoli degli anni cinquanta e sessanta. Quelli pubblicati su «Il Mondo», dedicati ai costumi del littorio, diventati un noto libro: Le rose del ventennio. Con sublime ironia, Fusco aveva raccontato il fascismo, le guerre, vite di generali e cocottes. Era l’eccentrico cantore degli arrampicatori sociali, degli imbroglioncelli, dei falliti, di poeti andati amale, di mattatori dal pessimo carattere. Poi i suoi irresistibili racconti passarono di moda. Il giornalismo, il mestiere del «sempre meglio che lavorare», si era completamente asservito alle cupole politiche e pubblicitarie, stava naufragando nella concentrazione mediatica e nelle autocensure. Con sublime ironia, Fusco aveva raccontato il fascismo, le guerre, vite di generali e di cocottes. Era l’eccentrico cantore degli arrampicatori sociali, degli imbroglioncelli, dei falliti, di poeti andati a male, di mattatori dal pessimo carattere.

Fusco non aveva trovato più giornali disposti a pubblicare i suoi articoli ricchi di invenzioni, di ammirabili «malemmi», di personaggi fuori dalle regole. Nessun direttore si sarebbe più sognato di stampare due colonne fitte su un pescatore di nome Gigino che riuscì a sposare, dopo trent’anni di corte serrata, una tale Erminia Bellati elevata da Guido da Verona al rango di personaggi letterario chiamandola Mina d’Orvella; e il barone Franchetti sognandola come Minetta, dopo essere stata esaltata col nome di Selvaggia da Gabriele D’Annunzio. Nessun redattore capo avrebbe più messo in pagina un superbo «coccodrillo» come quello dedicato da Fusco a Francesco Pastonchi: non aveva scritto dei suoi versi, ma esaltò la maniacalità del poeta per le scarpe «tutte lucide, divise per colore e stagione, ognuna munita di stringhe di ricambio, nessuna coi tacchi logori…».

Poi il colpo di fortuna con Arturo Tofanelli che aveva fondato nel 1959 il mensile «Successo», una vera e propria parade di grandi firme: Monelli, Ansaldo, Emanuelli, Barzini jr… tra questi Gian Carlo Fusco eccentrico i cui scritti sono raccolti adesso sotto il titolo Arpa e cannone La pagina più scintillante del mensile «Successo» (1959-1963) (a cura di Dario Biagi, Nino Aragno Editore, pp. XIX-286, euro 30,00).

Fusco era rimasto l’affabulatore da bar. Si sarebbe dovuto non soltanto leggerlo, ma pagare il biglietto per ascoltarlo. Non lesinava a nessuno l’orda sovrabbondante dei suoi racconti, tutti veri e tutti inventati.

«Noi andiamo a mangiare», disse. Fui della partita. Fusco, che vedevo per la prima volta, e di cui avevo letto con voracità articoli e libri, non mollò il boccino della conversazione. Cominciò a interrogarmi su chi fossi e che cosa facessi. In via Manfredo Camperio, d’angolo con via Meravigli, ci accolse la trattoria. L’oste, accasciato dietro al bancone zincato, aspettava gli affamati. Eravamo gli unici. Un ventilatore ad asta, in un angolo della sala, ronzando come un grosso calabrone, muoveva sui tavoli aria calda che sollevava le tovaglie di carta. Fusco guatò il grande quadro dominante la sala dove una pomposa femmina esponeva rigogliosi glutei dipinti da un epigono provinciale di Courbet. Partì con una slavina di ricordi. «Ho ammirato un quadro come questo in un casino di Marsiglia, al tempo in cui mi guadagnavo da vivere come sorvegliante delle prostitute. Ero stipendiato dai macrò. Facevo il mio lavoro seduto a un caffè, una Glisenti a tamburo 7,65 in tasca. Leggevo Mallarmé, Rimbaud e Baudelaire con l’occhio a Bebette, Manola e Lulu; ed ero molto considerato da uomini veri come Nené le Maroquin, René le Gros, Nando le Comandant…». Impossibile mettere insieme una scheggia biografica di Fusco almeno un po’ credibile. Era nato alla Spezia il 18 giugno 1915 e morì a Roma il 17 settembre 1984. Tra quelle due date c’è un insaccato di tutto.

Inventava la sua vita dandola a intendere diversa di volta in volta. A diciassette anni aveva deciso che la sua strada sarebbe stata la boxe. Al primo incontro riuscì a farsi sfasciare la faccia e buttare giù tutti i denti. Il resto della vita la passò da una dentiera all’altra: perduta, buttata via, venduta per lucrare l’oro dei ponti, gettata nella coppa di champagne di uno che gli stava sull’anima. Tentò la strada del ballerino di tip-tap. A vent’anni, nel 1935, aveva pubblicato un libro, Biancheria, bloccato dalla censura perchè giudicato «antisolare e disfattistico». A trentaquattro arrivò a Milano tutto sbrindellato, con sandali sfasciati, i pantaloni fermati con il fil di ferro. Intanto raccontava storie strabilianti: sua madre discendeva da una famiglia di zingari spagnoli, suo padre padrone di un circo, una zia ballava sulla corda e il nonno era un domatore… Scrisse articoli memorabili per «L’Europeo», «Succeso» e, celebrata, la «colonna», sua rubrica su Il Giorno.

Quel giorno aveva trovato un altro spettatore. Lo guardavo come stesse recitando la commedia del mondo. Faceva vedere ciò che raccontava. Mimava ogni personaggio. Mi squadrava con i suoi occhi azzurri che – diceva – erano cosi piaciuti alle signore. Al fondo era uno spaccone malinconico. Passava dall’epico all’ira come girasse un interruttore. Tribunizio e dimesso a un tempo. Esaurite le portate scivolò nei giri di grappa ingollati come acqua fresca. Con un gesto fermò al cameriere la bottiglia sul tavolo. Qualcuno diceva che per tenersi su assumesse acquavite come medicina. Pare arrivasse a superare i trenta cicchetti al giorno. Fatto il pieno, diventasse pericoloso, disposto alla rissa. A poco a poco gli si fece il vuoto attorno: beveva troppo, aspettava l’alba di ogni notte, periodicamente gli scattava la foudre, i celebrati cinque minuti. E parlava, parlava, parlava… per attirare l’attenzione su una mai confessata siderale infelicità. Era un gran dissipatore d’ingegno.

Quando lo conobbi non arricciava il naso alle riviste di secondo piano che gli chiedevano un racconto. Senza badare dava le sue memorie a editori semi-clandestini purché pagassero bene. Soltanto dopo la morte, a suo modo, è diventato un «classico», anche se l’opera letteraria sua sembra essere surclassata dalla vita, dove la vita medesima è un sommo capolavoro. Chissà se è proprio quello cui aspirava.

Al tavolo della trattoria fece l’elogio del tipo con cui l’avevo incontrato. Disse che era uno dei pochi che ormai lo stessero ad ascoltare devotamente. Dopo una pausa studiata, con la teatralità di chi si esalta all’ultima botta di grappa, Fusco urlò: «… E poi mi invita sempre a pranzo».