Parlare con Giampiero Cane, ottantacinquenne studioso di musica (afroamericana e classico-contemporanea), costituisce da sempre un’esperienza originale, matura, coinvolgente sotto il profilo intellettuale, grazie alla vastità di un sapere artistico-filosofico che di recente si è arricchito di un progetto creativo – Postfantamusicologia – elaborato assieme alla giovane compositrice Daniela Cattivelli; si tratta di un disco in vinile in edizione limitata basato su testi e voce di Cane, manipolati dalla stessa Cattivelli. Nell’intervista Cane allarga il discorso anche a performance novecentesche similari, non senza una rievocazione sui generis dei propri trascorsi universitari incentrati sulla stesura del libro Canto nero (1973) in primo piano, come riferimento storico-critico di intere generazioni.

Di recente, dopo un lungo silenzio, hai pubblicato un disco dal titolo intrigante…
Fantamusicologia era il titolo di un trattato di filosofia musicale «sparpagliato» tra gli scritti di Giuseppe Chiari, se non ricordo male, a decenni da quando ne sentii per la prima volta il nome, un violoncellista fiorentino che, non allora, ma pochi anni dopo, tale non si manifestava più, ma compositore impegnato nei nuovi territori scoperti e percorsi dalla rimodulazione musicale dei concetti della musica quali manovrati da John Cage e da altri più o meno profondamente legati all’innovatore newyorkese.

Con il tempo, fra l’altro, il nome di Cage è diventato un punto di partenza.
Un nome quasi imposto a un territorio vuoto, ma non è così, basti pensare a Varèse, ad Abraham Moles o a Reginald Smith Brindle o a Michael Nyman o magari, last but not least, a Morelli e Cane (e al loro Musica senza padri) per individuare qualche momento passato capace di riferire qualcosa dell’iniziativa attuale. Post si riferisce a Cage, a Fluxus, a Chiari e alle ore di conversazione con Giovanni Morelli portato via a decina di amici e a me più dal suo terrore dei medici che dal rigetto delle medicine (ma di ciò, se capiterà, in altra occasione), al teterrimo gioco cui volevo dar vita con un disco per la Xong Collection di Xing e Silvia Fanti.

Probabilmente se non fosse scomparso avresti proposto a lui di fare questo gioco?
Ma probabilmente avrebbe rifiutato per poi accondiscendere ai miei desideri, mettendo mano al progetto e modificandolo in cento cosucce che l’avrebbero reso un’altra cosa. Io che come musicista sono affatto irregolare sento spesso la limitatezza della mia preparazione, sia teorica che tecnica. Non ho mai praticato il solfeggio cantato, ho studiato per un po’ il violoncello, dedicando qualche attenzione al pianoforte, ma non altro. Questa è la ragione per cui comunque ho voluto qualcuno di formazione regolare al mio fianco per procedere: Daniela Cattivelli che ha manipolato voce e testi, e li hai poi remixati in una sua composizione originale.

Ma avevi già realizzato qualcosa di simile?
Un piccolo precedente c’era stato, un’occasione offertami da Massimo Simonini per uno show di Parole e musica nel privé del Cocorico di Riccione, localone che ospitava due piste piene zeppe di giovanissimi scatenati, cui sembrò che l’appartata iniziativa di marca Angelica interessasse solo marginalmente, ma vennero scattate centinaia di fotografie come se il trio completato da Caliri (spero di ricordare esattamente l’occasione) fosse stato un ensemble di famose rockstar.

Hai pensato a precedenti storici per questa tua «postfantamusicologia»?
Chi aveva fuso insieme parole e musiche, realizzando una prosa cantata fondata su quello che in musica non ha scrittura, non notazione e, nel parlato, la più gran libertà di timbri, registri, portamenti, intensità, chiarezza è stato Carmelo Bene, a mio dire, sommo musicista del Novecento. La sua arcata ha una vivacissima varietà di ritmi, d’intensità del suono. Immerge le parole in flussi che solo lui sa controllare. Qualcosa di simile sembrò poter essere di Sir John Gielgud, ma la sua dizione si stendeva alla fine su un panno troppo candido, invitato ad accogliere Macbeth, Lear e Hamlet i quali avrebbero indossato il medesimo abito sonoro. No, non a questi vertici pensavo giocando la mia Postfantamusicologia, ma se mai al Quartetto Cetra o a Fred Buscaglione, ma non a Totò perché sono incapace di sberleffi.

Che reazioni ha suscitato il tuo ritorno inaspettato con questo disco?
La maggior parte di quanti conoscevano il mio nome e qualcosa di me quando uscì il mio ellepi sarà stata, penso, sorpresa. Quel po’ di riscontro che il mio nome aveva, lo connetteva soprattutto col jazz; scrivendo questa parola mi viene in mente che Fortunato Depero in un suo volumetto di Liriche radiofoniche, nel 1934, scrive «Yazz»: la materia era ancora incerta fin nel nome, ma io non ne sapevo ancor nulla perché nascituro.

Vuoi dirmi che tu non sei nato, culturalmente, con il jazz?
Il jazz non fu un amore a primo contatto. Le musiche che mi appassionarono nei miei primi teen erano quelle di Rossini, di Ravel e qualcosa di Stravinskij, il pochissimo che la radio degli anni Cinquanta trasmetteva. Il jazz fu più tardi un viaggio di nozze con Armstrong, Billie Holiday, Stan Kenton, Bix, Hawkins e una band inglese diretta ormai non so più da chi.

Il tuo nome balza alle cronache attorno al 1973 quando pubblichi il volume «Canto nero», dove sembri avanti anni luce dalla critica jazz italiana dell’epoca: come arrivi a elaborare le tue nuove teorie musicali?
C’è un abisso anche di metodo d’ascolto tra questi amori giovanili, che mischiavano queste musiche americane con Bach, il Beethoven delle Sonate per pianoforte e il Bartók di cui qualcosa si cominciava a sentire, e il rapporto con la musica quale si manifesta in Canto nero. Quando lo scrissi, nel Sessantotto, non avevo ancora letto il libro Blues People (Il popolo del blues) di LeRoi Jones, altrimenti Canto nero, forse non l’avrei scritto, ma qualcosa del poeta americano sì. Mi misi al tavolino e scrissi. L’originale andò al Saggiatore che sembrava interessato e che diede in lettura il testo a un suo consulente (ritengo fosse Arrigoni, ma non so perché). Lui pensò bene di non farsi più vivo sicché l’editore mi chiese un’altra copia che io non avevo e non avrei avuto finché grazie a un trasloco dei miei non saltò fuori il tutto (meno poche pagine qua e là) e il testo passò a un editore del momento che non lo ripagò in alcun modo.

Nel frattempo, suppongo che per te vi fossero altre novità tra gli interessi culturali?
Avevo sostenuto l’esame di abilitazione per l’insegnamento di storia e filosofia, avevo iniziato a insegnare nelle secondarie e praticavo quei filosofi dai greci al Novecento che sono nei programmi scolastici. Fuor di ciò m’interessavano alcuni esistenzialisti, da Jaspers ad Abbagnano a Sartre che, poi son scivolati nel mio passato.

E poi c’è stata l’università…
All’università, è ovvio, devo molto. È una fortuna insegnare ciò di cui liberamente ci si occupa; però al Dams non devo granché. Esso non corrispose per nulla a un modello formativo elitario il quale solo può giustificare la materia. Discutere di Leo Smith può interessare un pubblico piuttosto limitato e per farlo sono indispensabili strumenti piuttosto raffinati e conoscenze che riguardano anche i cosiddetti minori. Non so se in anni e anni m’è capitato di parlarne in aula. Lì potevi fare lezioni che lasciavano incantati gli studenti, ma al redde rationem quel che ti veniva reso era la capacità di distinguere tra Hawkins e Rollins e non più, salvo che da pochi che non praticassero il jazz.

Che valutazione dai del jazz odierno?
Nello specifico attualmente ben poche cose m’attraggono e m’affascinano. Potrei facilmente dire che il jazz è morto, non fosse che ciò è avvenuto molte, troppe volte al presentarsi di prodotti della creatività molto innovativi. Oggi a mio vedere è questa innovazione ciò di cui sento la mancanza. Quando scrissi Canto nero era il nuovo della musica che mi eccitava: non se Ayler fosse musicista migliore di Coltrane, Taylor di Monk, ma in cos’erano diverse le musiche di questi e di altri musicisti allora nuovi. Certo li rimpiango un po’ tutti, ma come dice il mio amico Fabrizio Puglisi, di ottimo jazz ce n’è ancora tanto nelle registrazioni, ancora piene di sorprese.

Faresti ristampare tale e quale «Canto nero»?
Ti rispondo di sì, ma nel «tale e quale» dovrebbe esserci anche l’anno di pubblicazione.

 

UNA PENNA ALTERNATIVA, LA BIOGRAFIA
Giampiero Cane, classe 1937, è il primo in Italia a insegnare il jazz in università, esattamente al Dams di Bologna, dove per oltre vent’anni tratta la «Civiltà musicale afroamericana» (come pure «Musica moderna e contemporanea»). A partire dagli anni Sessanta è penna alternativa per quotidiani e riviste, in particolare grazie alla militanza sia ne il manifesto sia su Alias. Autore di libri eterogenei, come ad esempio Sade, Rossini, Leopardi. Tre deformazioni dolorose», Con-fusa-mente il Novecento, D’unghie ed altro, a conferirgli una fama, ben oltre la critica musicale, è Canto nero. Il free jazz degli anni Sessanta (1973) dove la musica «politica» viene analizzata con piglio filosofico; seguiranno Duke Ellington. Dalla White house a Dio; Monkcage. Il Novecento musicale americano, quasi un trittico ideale sulla black music. Di recente ha pubblicato il disco d’avanguardia Postfantamusicologia assieme alla sound artist Daniela Cattivelli, confermandosi personaggio scomodo e ora artista geniale.