Nello scorso dicembre a Parigi si è concluso il processo per i fatti del 7 gennaio del 2015, quando due jihadisti fecero irruzione nella sede della rivista satirico Charlie Hebdo nel pieno di una riunione di redazione e uccisero 12 persone tra i quali i fondatori del giornale e gli autori delle vignette considerate blasfeme. La notizia fece il giro del mondo e l’hashtag #jesuischarlie inondò i social. Seguito da altri attacchi altrettanto sanguinosi, l’attentato compiuto da due estremisti, entrambi cittadini francesi, era espressione di un odio e di un risentimento profondi, alimentati negli anni, stratificati e geograficamente estesi, come dimostrato dalle indagini che svelarono reti terroristiche internazionali e numerose crepe nel sistema di sicurezza francese ed europeo. Giacomo Nanni, fumettista di stanza a Parigi, di cronaca aveva parlato anche in Atto di Dio (Rizzoli, 2018): in quel caso si trattava un terribile evento naturale, il terremoto di Amatrice; nel nuovo fumetto, Tutto è vero, da pochi giorni in libreria, siamo invece di fronte a una tragedia perpetrata dall’uomo, un attentato terroristico.

Eppure è inesatto e fuorviante parlare dei fumetti di Nanni come fumetti di realtà, quando l’evento realmente accaduto e i fatti sono trattati con distacco, senza pretese di reportage, presentati con dovizia di particolari tecnici, e collocati al margine di una narrazione che ha come centro metaforico un personaggio animale e come cifra il senso di minaccia incombente e la paura. Nanni costruisce un libro ambizioso, in cui il racconto portato avanti da una voce narrante affidata a un animale, incede con un ritmo che coniuga misura e spietatezza e avanza attraverso tavole simmetriche di grande impatto visivo. La complessità del mondo, che si esprime anche nella morte violenta e nell’odio religioso esiste e, sembra suggerire l’autore, può essere narrata prescindendo dalla totalità del reale: forse preoccupato di scadere in facili trappole retoriche, l’autore sposta il peso del dato reale dopo la prima metà della storia, raccontata con uno stile grafico ricercato e minuzioso, lontano dalla maniera e totalmente immerso nella ricerca. Abbiamo parlato con lui per cogliere l’ispirazione, il detonatore della storia, entrare nel trattamento di una materia tanto intricata quanto dolorosa.

«Tutto è vero» ha somiglianze vistose con «Atto di Dio»: un animale protagonista -la cornacchia- per buona parte narratore della storia e i personaggi umani ridotti a una silhouette nera, che vengono «raccontati in terza persona». Come dimostrano le sequenze iniziali ispirate alla lavorazione di «Uccelli» di Alfred Hitchcock, la cornacchia è estremamente intelligente, si può addestrare, reagisce alla paura difendendosi. In più, come volatile, il suo punto di vista dall’alto è funzionale a svelare la contemporaneità delle diverse trame. Puoi raccontarci come hai scelto questo animale?
Ci sono colonie di cornacchie un po’ ovunque dove abito, e quindi mi hanno incuriosito. Mi sono interessato alla loro intelligenza dal punto di vista scientifico, ma anche alla loro presenza in città, nella storia. Ho scoperto che, non lontano dai quartieri in cui il libro è ambientato e dove ho abitato anche io per qualche anno, era situato un importante patibolo, simbolo del potere legislativo e della «giustizia» della regione di Parigi dall’anno 1000 fino poco prima della rivoluzione francese. I cadaveri dei giustiziati vi rimanevano esposti alle intemperie e alle attenzioni dei corvidi residenti. È proprio lì che è ambientata la più famosa poesia di François Villon, «La ballata degli impiccati» che a un certo punto recita: La pioggia ci ha bagnati e dilavati/ e il sole disseccati e anneriti. /Gazze e corvi gli occhi ci han cavati / e strappato la barba e i sopraccigli.

Purtroppo ho dovuto rinunciare a raccontare questa parte della storia, sarei andato troppo lontano nel tempo, però quando nel libro disegno stormi di cornacchie sovrastanti la città non mi allontano troppo dal vero. Esiste dal 2015 un piano del comune di Parigi e del Museo nazionale di Storia naturale, volto alla catalogazione delle cornacchie residenti. Vengono catturate, dotate di un anello di riconoscimento numerato, liberate e osservate nei loro spostamenti anche per comprendere in futuro come rispondere efficacemente ai danni provocati dalla loro presenza. Mentre ti rispondo, le cornacchie numerate sono 665, ognuna dotata di un curriculum vitae. Molte di quelle catturate nel 2015 sono ancora vive. È tutto accessibile online.

Per raccontare l’attentato del 7 gennaio 2015 alla redazione di Charlie Hebdo, hai proceduto a ritroso ricostruendo la verità storica nel complesso rapporto tra musulmani e Francia: c’è un primo racconto di cronaca legato agli harki- algerini musulmani arruolati nell’esercito francese durante la guerra franco-algerina-presenti anche nella polizia sul territorio nazionale per contrastare l’insediamento di affiliati del Fronte di Liberazione Nazionale. Questo inserto è a sua volta un’anticipazione di quanto avverrà più tardi con le indagini sulla vicenda delle Torri Gemelle, fino ad arrivare a Charlie Hebdo: le confessioni estorte con la tortura, l’individuazione di un colpevole pilotata dall’occidente, sono pratiche che sembrano ripetersi nei decenni, anche se i media occidentali raramente arrivano a questo tipo di prospettiva…il titolo è un riferimento a questa verità multiforme?
Sì, la verità multiforme e parziale di ognuno, dal torturatore al narratore. E in questo senso pure il libro di cui stiamo parlando andrebbe messo in causa. Diciamo così: non ho disegnato questo libro sotto tortura, per fortuna. Posso permettermi di intitolarlo Tutto è vero perché se anche raccontassi tutta la verità, non potrei mai raccontarla per intero perché non la conosco e soprattutto nessuno mi ha obbligato a farlo. È un romanzo ispirato a fatti accaduti, non un reportage, e il rapporto complesso dell’occidente con l’Islam resta lì, che qualcuno lo racconti oppure no. La prima scena di tortura è ispirata a una testimonianza degli anni ’60, prima della fine della guerra con l’Algeria, ma quando l’ho disegnata non mi interessava rivelare qualcosa di scomodo, quanto mettere in contrasto la malafede del torturatore con la sincerità del praticante musulmano di cui parlo subito dopo, nel libro. Sono entrambi due rapporti molto concreti, non teorici, con la verità. Il torturatore interroga il torturato, il praticante religioso interroga sé stesso. Il torturatore non accetta la confessione parziale del torturato. Pensa di sapere già quello che l’altro dovrà dirgli.

Il titolo è per caso anche un riferimento alla copertina del numero di Charlie Hebdo uscito il 14 gennaio, dopo gli attentati, che recitava «Tous est pardonné», tutto è perdonato?
No. In effetti è una trascrizione letterale della frase «tout est vrai», che mi piace molto e che in francese significa semplicemente «è tutto vero».

Di verità storiche adattate alle necessità ideologiche parla anche Marcello Flores in un suo recente libro, «Cattiva memoria», dove si afferma che il peggior nemico della storia è la memoria intesa come dovere morale, talvolta fomentatrice e sobillatrice di rabbia, conflitti e violenze. Mi sembra che tu ti sia volutamente tenuto lontano da questo tranello, compiendo uno sforzo di obiettività. Quali altre linee hai seguito per trasformare la documentazione in un’accurata ricostruzione?
Ho scritto il soggetto di una storia: l’inizio, lo sviluppo e il finale. Ma non ero ancora sicuro dei dettagli. La ricerca documentale si è inserita automaticamente nel processo di elaborazione del racconto. Avevo solo una vaga idea della legislazione vigente sui corvidi, sapevo che erano considerati animali nocivi. Approfondire l’argomento mi ha permesso di introdurre il lettore in quel contesto, ma non c’era alcuna necessità di esprimere un giudizio su quella legislazione per metterne in evidenza la portata. Ho sempre applicato questo procedimento, attenendomi al racconto che avevo già scritto. È molto delicato l’equilibrio fra i vari episodi che si concatenano fra di loro, pur lontani nel tempo, ma non ho seguito alcuna regola particolare, a parte l’intuizione.

A livello narrativo la cornacchia, la bambina e i jihadisti costituiscono una trama di superficie, una scorza, la parte «visibile» di una vicenda reale molto complessa dove una fede, a contatto con l’assetto geopolitico occidentale diventa fondamentalismo e terrorismo. Il poliziotto musulmano, un personaggio importante nella tua storia, viene infatti visto dai terroristi come un traditore e trucidato a freddo, sotto la sede di Charlie Hebdo. Mi sembra che i rapporti tra questi elementi siano regolati dalla territorialità, dalla difesa dei propri simili. Il tuo libro può essere letto come una critica ai sovranismi, o in generale, ai sistemi di pensiero che difendono un’identità monolitica?
Sì, non credo sia solo un problema dei vari sovranismi o del fondamentalismo religioso. Credo che ci sia un problema dietro qualunque rivendicazione identitaria che non prenda in considerazione la storicità del proprio essere e quindi il suo divenire nel tempo. Ma le rivendicazioni identitarie trovano la loro ragione proprio in una presunta monoliticità del loro essere. Ci è difficile pensare a noi stessi come a qualcosa di cangiante. Vale per tutti. Sarebbe più divertente, se essere o non essere fosse rivendicato prima di tutto come diritto individuale al dubbio amletico. Ma purtroppo questa roba non è divertente, in generale.

«Tutto è vero» è anche un racconto sulla paura e sulle sue espressioni, un sentimento che ci rende molto manipolabili, soprattutto se associato a credenze religiose… Sei d’accordo?
Sono d’accordo sul fatto che l’attentato a Charlie Hebdo sia stato messo in atto da terroristi jihadisti, convinti di fare breccia nel cuore di qualcuno usando la violenza e quindi la paura, perché probabilmente la loro stessa vita è governata da quel tipo di relazione conflittuale con il prossimo. D’altra parte, il Dio dell’antico testamento incute paura nel popolo eletto, che allo stesso tempo protegge. Ci dimentichiamo spesso di venire anche da quella cultura. Sono sicuro che, se usata male, la religione possa fare molti danni, ma non più di quanti ne abbiano fatti la scienza e la tecnologia negli ultimi due secoli. Nel libro è evidente la differenza fra l’islam praticato in moschea, pregando, e quello praticato dai fondamentalisti, terrorizzando, ma non è detto che questa cosa salti agli occhi leggendolo. Dipende dalla sensibilità di ognuno. Sicuramente la paura è uno dei motori del racconto: ognuno ha paura di ognuno, la ragazzina, la cornacchia, i jihadisti, il poliziotto. La paura governa quella parte di cervello più arcaica, che abbiamo in comune con i corvidi. Ne parlo all’inizio del libro.

La voce narrante animale, col suo punto di vista dall’alto, sembrerebbe dover garantire al lettore una certa obiettività. Invece la stessa voce spesso fornisce informazioni e fa osservazioni molto accurate sulla società umana che suonano come moniti o implicano un giudizio. Questo produce un effetto straniante sul lettore: era quello che cercavi?
Sì. Dipende dal fatto che ho tradotto il suo comportamento (portare regali a qualcuno, aggredire qualcun altro, sono comportamenti che sono stati osservati oggettivamente) in una visione totalmente manichea dell’esistenza. L’ho tradotto per noi umani. Non è detto che, per una cornacchia, fare determinate scelte implichi un giudizio morale, anche se sicuramente la mitologia del corvide inteso come messaggero degli dei, non nasce dal nulla.

Ricordiamo il tuo libro «Nel mirino», scritto da Thomas Gosselin del quale avevamo parlato anche su queste pagine (https://cms.ilmanifesto.it/bersagli-presi-di-mira/). Non è la prima volta che parli di un attentato, quindi del fanatismo degli uomini contro altri uomini. C’è un motivo specifico?
Mi interessa affrontare argomenti delicati, che mi mettono in difficoltà.

Alla fine del nostro percorso, abbiamo tra le mani un libro che riprende certe caratteristiche del precedente ma se ne allontana con coraggio: gli inserti storici rimontano a epoche non contemporanee all’azione principale e soprattutto a livello stilistico, c’è un passaggio importante che riguarda la tecnica, che era digitale in Atto di Dio e che qui torna alla creazione manuale. Puoi spiegarci come hai lavorato?
Nel libro precedente avevo lavorato in digitale separando i tre colori primari più il nero, direttamente sui tre canali della quadricromia, il procedimento che permette di stampare qualunque tonalità di colore come sovrapposizione dei quattro inchiostri tipografici. Era una tecnica ispirata ai procedimenti precedenti l’avvento del colore diretto e dello scanner. I fumetti di super eroi erano stampati così fino agli anni ‘70, per intenderci. Per il nuovo libro ho trasportato la stessa tecnica sulla carta trasparente, l’acetato. Quindi ho separato i tre colori su fogli diversi, sovrapposti tra loro utilizzando pennarelli acrilici e un attrezzo per grattare che mi ha permesso di ottenere diversi tipi di retinatura. È un discorso un po’ tecnico, più facile da vedere che da descrivere. Ogni vignetta è disegnata separatamente dall’altra come un’opera a sé stante, perché i colori si sovrappongono in modo diverso a seconda del disegno. In questo modo oltre al libro esiste una serie di più di trecento disegni che saranno oggetto di un’esposizione alla Galerie Martel di Parigi, in occasione dell’uscita del libro e non appena le condizioni sanitarie lo permetteranno.