Nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani (1824) Giacomo Leopardi svolge alcune considerazioni sul tema della solitudine. Vi riflette ponendosi in una angolatura etica e politica. Si sa che l’argomento della solitudine è toccato e ragionato in più passi dello Zibaldone. Ad esempio in una nota del maggio del 1825 (4139) dove, nella fattispecie, la pratica della solitudine è presentata come incapace di declinare in una modalità ‘sociale’ quale che sia, anzi, quella d’una valenza ‘politica’, è una prospettiva che Leopardi qui, decisamente, alla solitudine interdice. Infatti, ammonisce, la solitudine educa all’uomo ‘metafisico’, non mai coltiva l’uomo ‘psicologo’ o ‘politico’.

E spiega: «l’uomo riflessivo coll’abito della vita sociale non può quasi a meno di non essere un filosofo di società (o psicologo, o politico ec.); coll’abito della solitudine riesce necessariamente un metafisico». E, in conclusione, ribadisce: «se da prima egli era filosofo di società, da poi, contratto l’abito della solitudine, a lungo andare egli si volge insensibilmente alla metafisica e finalmente ne fa il principale oggetto dei suoi pensieri e il più favorito e grato». Ma quali pensieri l’«abito» della solitudine alimenta e muove? E secondo quali sue peculiari forme il contegno solitario li plasma, quei pensieri?

E come li coniuga, poi, fino a renderli costitutivi d’un agire, d’un pratico ed effettivo comportarsi che Leopardi designa per «metafisico», appunto, se speculazione metafisica equivale, come egli nettamente afferma, a «cognizione della vanità d’ogni cosa»? Attingiamo una prima indicazione da le seguenti linee che pure si leggono nello Zibaldone alla data del 20 febbraio 1821 (679-683) vergate, forse, non senza un riposto tono autobiografico, dove, come in altri consimili brani, «a quanto accade parimenti ne’ fanciulli» è accostato per affinità lo ‘stato naturale’ del solitario, felice uomo ‘primitivo’: «il giovanetto ancora chiuso fra le mura domestiche, o in casa di educazione, o soggetto all’altrui comando, è felice nella solitudine per le illusioni, i disegni, le speranze di quelle cose che poi troverà vane o acerbe: e questo ancorché egli sia d’ingegno penetrante, e istruito, ed anche, quanto alla ragione, persuaso della nullità del mondo».

L’uomo, teso per natura all’immaginazione. Nella solitudine, constata allora Leopardi, mentre si acquista la consapevolezza della «vanità reale delle cose umane», ad un medesimo tempo si ritrovano e acquisiscono le «risorse interne» dell’immaginazione: «la solitudine rinfranca l’anima e ne rinfresca le forze, e massime quella parte di lei che si chiama immaginazione. Ella ci ringiovanisce». Le illusioni, i disegni, le speranze, dunque. Nel Discorso ove prende in esame le maniere dell’Italia del suo tempo («essa è di costumi notabilmente diversa dagli altri popoli civili») e ne rileva «il poco o niuno amor nazionale che vive tra noi», Leopardi registra la assenza in Italia d’ogni «istituto di vita e professione per cui l’uomo miri a uno scopo, e coll’aspettativa, coi disegni, colle speranze dell’avvenire rilevi il pregio dell’esistenza, la quale sempre che manca di prospettiva d’un futuro migliore, sempre ch’è ristretta al solo presente, non può non parer cosa vilissima e di niun momento; perché nel presente, cioè in quello che è sottoposto agli occhi, non hanno luogo le illusioni, fuor delle quali non esiste l’importanza della vita».

Nella solitudine si guadagna una distanza che allontana dagli oggetti e rarefà le relazioni e sublima gli scambi, affina le sensazioni e le seleziona. Si vanno collocando in una diradata lontananza i sentimenti di reciprocità e gli affetti. Ma quel vivere da lontano emozioni e passioni, rammemorazioni e convincimenti e gli oggetti medesimi, «giova infinitamente a ingrandirli, apre il campo all’immaginazione … risveglia e risuscita sovente le illusioni … l’animo dell’uomo torna a creare e a formarsi il mondo a suo modo…». Così, ragiona Leopardi, le illusioni, i disegni, le speranze se nascono nella solitudine, ovvero nel distacco dalla ‘società’, a una società che si voglia viva sono indispensabili.