«Vestivo la realtà del momento interpretandola in un modo che incantava i passanti» è una celebre frase di Paul Poiret, il couturier che lega il suo nome alla jupe-culotte, una delle creazioni di moda più significative del XX secolo. Ispirati ai costumi disegnati da Léon Bakst per i Balletti Russi di Diaghilev, i pantaloni femminili che Poiret lanciò nel mercato della moda a ridosso del 1910 (le sue creazioni erano particolarmente amate da Isadora Duncan) vedevano l’impiego di tessuti morbidi e drappeggi all’orientale che andavano a chiudersi sulle caviglie permettendo alle donne di muoversi con più disinvoltura e rapidità che non indossando, come sino ad allora, l’abito lungo fino ai piedi o la gonna che arrivava a sfiorare le caviglie. Una libertà tutta nuova resa ancora più audace dall’eliminazione di un altro indumento del guardaroba femminile, il corsetto: scomodo, fastidioso e doloroso.

SOPRATTUTTO nel XIX secolo questi capi d’abbigliamento muniti di lacci servivano per strizzare il punto vita in maniera innaturale, arrivando a disegnare la pronunciata linea ad S: erano in ferro, successivamente sostituito dalle stecche di balena e vimini inserite nella struttura di tessuto. Paul Poiret come pure Coco Chanel, Mary Quant e Diane von Fürstenberg sono figure chiave del percorso di Habitus. Indossare la libertà (a cura di Manuela Rossi, Alberto Caselli Manzini e Luca Panaro), una mostra ideata e prodotta dal Comune di Carpi – Musei di Palazzo dei Pio (fino al 6 marzo 2022), in occasione di festival filosofia 2021 che quest’anno ha celebrato proprio il tema della libertà. L’esposizione ripercorre in ordine cronologico alcune tappe significative della storia della moda del secolo scorso attraverso il reggiseno (anche nella variante a punta o proiettile chiamato bullet bra, indossato negli anni ’40 e ’50 dalle pin-up, nonché da dive come Jane Russell, Marilyn Monroe, Lana Turner e Sophia Loren e recuperato alla fine degli anni ’80 da Jean-Paul Gaultier che ha firmato la mise di Madonna per il tour del ‘90), il bikini, gli shorts (hot pants), la minigonna, spostandosi poi ad analizzare l’evoluzione del mondo del lavoro, dello sport e del tempo libero – sia femminile che maschile – per tornare a focalizzarsi sul corpo con indumenti altrettanto emblematici come la giacca destrutturata di Giorgio Armani e il wrap dress di Diane von Fürstenberg con l’eliminazione dell’uso della cerniera lampo e dei bottoni. Una felice coniugazione che in questo specifico contesto trova una propria chiave di lettura nell’intercettare la storia e l’economia del territorio dell’area modenese che, con le oltre duemila aziende del settore tessile, rappresenta un’eccellenza.

I CAPI ESPOSTI provengono prevalentemente dagli archivi di Modateca Deanna – Centro Internazionale di Documentazione Moda a San Martino in Rio e da A.n.g.e.l.o. Vintage a Lugo che, come spiega Manuela Rossi direttrice dei Musei di Palazzo dei Pio, conservano migliaia di pezzi impiegati sia per le esposizioni che per le ricerche d’azienda e in ambito universitario. «Al loro interno abbiamo fatto una ricerca funzionale allo sviluppo del tema di Habitus. La mostra parte dal concetto filosofico di Pierre Bourdieu sul sistema di convenzioni e relazioni che attraversano la vita dell’individuo nella società, anche in relazione all’abbigliamento e alla moda e che vengono rotte ciclicamente dalla creazione di capi che segnano degli aggiornamenti, dei passi avanti importantissimi non solo nel campo della moda ma anche dal punto di vista sociale e culturale. Capi che sono diventati iconici. Tutti, infatti, associamo la minigonna al ’68 e al movimento di ribellione. Ogni indumento scelto nella costruzione di questa mostra rappresenta, per motivi diversi, un momento di liberazione soprattutto del corpo femminile, ma anche da cliché che vedevano gli uomini – mi riferisco alla felpa, alla Tshirt e ai jeans – sempre vestiti sostanzialmente con il completo».

un'immagine dalla mostra
foto di Manuela De Leonardis

LA SEZIONE FOTOGRAFICA propone altre interessanti chiavi di lettura nell’analizzare l’evoluzione della moda attraversano i cambiamenti sociali del territorio. Sin dal 2009, in collaborazione con il Comune di Carpi, il critico fotografico Luca Panaro ha avviato un progetto di ricognizione e valorizzazione dei beni documentali della città e del territorio invitando artisti internazionali a creare delle opere in dialogo con i pezzi del Centro di ricerca etnografico che, creato nel 1979, conserva anche un’ingente sezione che raccoglie fondi fotografici, audio e video, oltre alla biblioteca con oltre duemila volumi. Particolarmente significativa la scelta di riproporre nell’ambito di Habitus una selezione dei due progetti realizzati, rispettivamente nel 2011 e nel 2012, da due grandi interpreti del linguaggio fotografico contemporaneo: Mario Cresci e Franco Vaccari. In particolare nelle foto della serie In palmo di mano, Vaccari isola dall’ambiente domestico la gestualità dei padri che mostrano le loro figlie primogenite con orgoglio. «Franco Vaccari ha fermato la sua attenzione su queste fotografie abbastanza uniche, perché siamo negli anni ’40 anni in cui – come sappiamo – i padri non erano molto orgogliosi di avere come primogenita una figlia femmina. In questo territorio, però, le figlie femmine erano importanti perché erano fonte di reddito.» – spiega Panaro – «Tutto nasce dalla moda, dal tessile e, andando indietro nel tempo, dal truciolo. Donna voleva dire economia, oltretutto a differenza di altre aree geografiche qui le donne si emancipavano prima perché venivano mandate giovanissime a fare le mondine. Partivano dalla stazione ferroviaria di Carpi verso le campagne piemontesi dove stavano anche tre, quattro, sei mesi e tornavano a casa il più delle volte come ragazze madri. Le famiglie accettavano questa condizione.
Le donne, quindi, non solo lavoravano ma si facevano carico della loro famiglia. Se, quindi, nell’iconografia tradizionale era il figlio maschio ad essere posto sul piedistallo, in questo contesto è un ruolo che spetta alle figlie femmine».