Se la critica ha definito «sciamano dell’arte» Joseph Beuys, perché indagava in genere le connessioni dell’uomo con forze invisibili, Joan Jonas è la sciamana dell’immagine. Dal disegno, dalla pittura, dal video e dal teatro l’artista newyorkese tira fuori lo spirito della rappresentazione. La sopravvivenza dell’immagine nel mutare degli stati percettivi: il simulacro della ritenzione, il suo fantasma in atto. Come se questo spirito avesse forma scultorea – con lei ce l’ha.
Docente al Mit dal 1998, dove è attualmente Professor Emerita nel Program in Art, Culture, and Technology, Jonas si è laureata nel 1958 in Storia dell’Arte al Mount Holyoke College, ha studiato alla Scuola del Museum of Fine Arts di Boston e ha ottenuto un master in scultura alla Columbia University nel 1965. Vincitrice di molti premi e riconoscimenti, ha esposto, con personali, allo Stedelijk Museum di Amsterdam (1994), alla Galerie der Stadt, Stoccarda (2000), al Macba, Barcellona (2007-2008), al Museum of Modern Art, New York (2010), alla Bergen Kunsthall, Norvegia (2011), alla Galería Proyecto Paralelo, Messico (2013), al Kulturhuset Stadsteatern, Stoccolma (2013) e al Centre for Contemporary Art, Kitakyushu Project Gallery, Giappone (2014). Di recente Milano, HangarBicocca, le ha dedicato una grande retrospettiva (2014). A breve, uscirà, per Gregory R. Miller & Co., la prima monografia completa del suo lavoro, In the Shadow of a Shadow: The Work of Joan Jonas, a cura di Joan Simon.
Per tre sere, They Come to Us without a Word, l’installazione promossa dal Mit List Visual Arts Center e dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, valsa una menzione speciale al padiglione americano della 56/ma Biennale, è sfociata in una videoperformance che è andata in scena a Venezia, Teatro Piccolo dell’Arsenale, con la collaborazione del Teatro Fondamenta Nuove e dello Iuav e il sostegno di Fundación Botín, Galleria Alessandra Bonomo, Max Mara, Thyssen-Bornemisza Art Contemporary e un donatore anonimo.
Qui, per la prima volta in cinquant’anni, e rarità in assoluto, Jonas ha invertito il processo di «traduzione»: dall’installazione alla performance. Sul palco, al ritmo delle musiche di Jason Moran, jazzista e compositore di Houston, si susseguono filmati privati e di found footage che l’artista, prossima agli ottant’anni, anima in una danza. Al drammatico scorrere degli eventi, scandito dal pianoforte e dalla fisarmonica di Moran, si sovrappone la regia gestuale della performer. Forse è il suo modo di tesaurizzare Lines in the Sand, l’opera presentata con Dj Spooky a Documenta 11 (2002) di Kassel, quando curatore era Okwui Enwezor, attuale direttore artistico della Biennale veneziana: farsi vee-jay.
Su tre alti stage-screen bianchi e trasparenti, mise en abîme dello spazio scenico – uno schermo grande, centrale e rettangolare, due pannelli stretti e laterali – si vedono, in proiezione anteriore e posteriore, dettagli di alveari, foreste e fondali marini. Mondi che prima inglobano gli attori-mediatori – Jonas e i bambini – poi si allargano a simulare l’inclusione e l’immersione dello spettatore.
Gli attori utilizzano maschere, costumi, veli, cerchi, ventagli, fari, bastoni, remi, specchi e nastri per entrare in contatto con paesaggi e personaggi dei filmati, riproducendoli, inventandosi nuovi modi di usare le immagini. Con i veli e gli specchi, dagli sfondi dei film alla ribalta del palco, stratificano la visione. Ombre dei corpi in carne e ossa si intersecano alle figure enunciate per evitarne la scomparsa, per riattivarle. Viene in mente The Hand Reverts to its Own Movement, la performance dell’artista per la Fondazione Ratti a Como (2007), dove le ombre si generavano dai movimenti per produrre suoni.
In They Come to Us… Jonas, a volte recitante, è più spesso in piedi a leggere ghost stories provenienti da Cape Breton, Nova Scotia, o seduta a intessere, a suonare strumenti a percussione o a disegnare istruzioni di gioco. Una telecamera ravvicinata e a circuito chiuso permette di vederne le mani mentre sovrappongono scritte e schemi. L’artista improvvisa, come nel jazz di Jason Moran, i fili di una storia che interpreta. Ci riporta al tempo denso del rito o all’infanzia, quando una fenomenologia dell’immaginazione muove al gioco, simbolizzando in fieri le cose e tentando modifiche e trasformazioni, gli andirivieni del significato. Non a caso un’altra opera di punta, The Shape, the Scent, the Feel of Things (2004-2006), partiva dal saggio di Aby Warburg sul rituale del serpente. In They Come to Us… una siepe è un’arpa che si suona in accordo coi movimenti del vento.
Da qui e da alcune citazioni all’articolo For all the Fishes in the Sea di Gib Brogan si coglie l’isotopia ecologica e politica di They Come to Us without a Word: evanescenza e rimotivazione delle bellezze della Terra invitano alla salvaguardia: il destino di specie animali e vegetali coincide con quello dell’uomo, abitiamo lo stesso pianeta. Ora queste specie ci appaiono dinanzi («they come to us…»), mostrando i loro ritmi. Il monito non è retorico né troppo esplicito. Jonas, coi bambini, lo esprime a colori, nella passione della sorpresa e lo stato d’animo dell’allegria.
A livello di un’«archeologia dell’opera» (Foucault) compie poi una metamorfosi non da poco: il «quadro», oggetto fisso e materiale, che, una volta creato ed esposto, si separa dall’artista, diviene con lei un dispositivo mobile e diafano, dentro cui le immagini si incarnano, pronto a esecuzioni collettive live. I gesti di Jonas lo fanno avanzare e retrocedere, lo ruotano, flettono, inclinano. Cornici ideali che curano immagini da salvare.