Il presidente afghano Ashraf Ghani, dopo essersi opposto per giorni, ieri ha firmato un decreto che autorizza il rilascio di 1.500 detenuti talebani. Sono meno di un terzo dei 5mila di cui gli studenti coranici invocano la liberazione, ma il loro rilascio è un gesto di apertura che potrebbe avviare il dialogo intra-afghano.

L’AVVIO DEL NEGOZIATO ufficiale tra Talebani e rappresentanti del governo era previsto per il 10 marzo, ma è stato posticipato proprio a causa della contesa sul rilascio dei prigionieri, frutto di una differenza sostanziale: l’accordo tra Stati uniti e Talebani firmato il 28 febbraio a Doha dall’inviato del presidente Trump, Zalmay Khalilzad, e dal capo della delegazione politica dei Talebani, mullah Baradar, prevede che vengano liberati «fino a 5mila Talebani» in cambio di mille prigionieri trattenuti dai Talebani. Nella dichiarazione firmata lo stesso giorno tra Kabul e Washington, il governo si impegna genericamente a favorire il rilascio dei Talebani.

Intorno a questa differenza sia il presidente Ghani sia i Talebani stanno giocando una battaglia di posizionamento strategico. Ghani per giorni ha tenuto il punto, condannando quel passaggio del testo come una violazione della sovranità nazionale, per poi autorizzare la liberazione di 1.500 Talebani, cento al giorno a partire da sabato, contestualmente all’avvio del negoziato. Se dovesse cominciare per il verso giusto, e se i Talebani ridurranno gli attacchi alle forze di sicurezza afghane, ogni due settimane ne verranno rilasciati altri 500, fino ai 5mila totali.

I TALEBANI OBIETTANO che la lista dei detenuti è già pronta, che vogliono liberi tutti e subito, che il governo gioca sporco. Ma sembra una tattica negoziale, più che una posizione non negoziabile.

LA DECISIONE DI GHANI arriva, non a caso, due giorni dopo la cerimonia di inaugurazione del suo secondo mandato, alla quale hanno partecipato i rappresentanti dell’Unione europea, degli Stati uniti, di molti Paesi occidentali. La loro presenza è rilevante: manda a dire che la contesa sull’esito delle presidenziali del 28 settembre 2019 deve finire. E che, come ha ricordato in una nota il Dipartimento di Stato Usa, i «governi paralleli» non sono ammessi. Così ha ripetuto anche il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo.

È L’ENDORSEMENT che Ghani aspettava e per il quale, dicono molti a Kabul, avrebbe acconsentito al rilascio dei Talebani: il governo parallelo è infatti un esplicito riferimento al principale sfidante di Ghani alle presidenziali, Abdullah Abdullah, che ha contestato la vittoria del tecnocrate e deciso di celebrare la nascita di un governo parallelo, nelle stesse ore in cui Ghani inaugurava il suo secondo mandato.

A poche centinaia di metri di distanza, trasmesse in diretta televisiva su schermi divisi a metà, lunedì a Kabul si sono dunque svolte due cerimonie, emblematiche della presunta democratizzazione dell’Afghanistan, in cui sia Abdullah sia Ghani si sono dichiarati presidenti della Repubblica islamica. Il discorso di Ghani è stato interrotto da alcune esplosioni, avvenute poco lontano, ma lui ha continuato ad arringare la folla, facendone occasione di auto-promozione.

HA APERTO LA GIACCA, mostrato la camicia senza giubbotto anti-proiettile e si è dichiarato pronto alla morte, per difendere la nazione. Ieri invece, più prosaicamente, ha eliminato con un decreto la figura del chief of executive officer, il ruolo di primo ministro che era stato pensato nel 2014 proprio per il rivale Abdullah Abdullah e proprio per mettere fine alla contesa post-elettorale di allora con la nascita di un governo di unità nazionale.

Oggi quel governo è archiviato. Quello nuovo ha il sostegno della comunità internazionale ma è debole, privo di consenso popolare, diviso. E ancora non è riuscito a designare i membri della delegazione che dovrà incontrare i Talebani per discutere il futuro dell’Afghanistan. Dal paese, intanto, lunedì è cominciato il ritiro delle truppe americane, come prevede l’accordo firmato a Doha con i Talebani alla fine di febbraio.