Per Gèza Röhrig Il figlio di Saul è il primo lavoro come attore su grande schermo. Nato a Budapest nel 1967, il protagonista del film di Laszló Nemes vincitore del Gran Prix al Festival di Cannes 2015 e del Golden Globe come miglior film straniero è principalmente uno scrittore: ha già realizzato due libri di poesie sull’Olocausto. «Però ho pubblicato il mio primo lavoro troppo presto», dice alla Casa del Cinema di Roma in occasione della presentazione di Il figlio di Saul, in uscita domani nelle sale italiane. «Ero troppo giovane, scriverlo per me era una necessità ma la verità era più grande della mia capacità di esprimerla».
«Per questo – continua – ho un grande rispetto per il lavoro di Laszló, che è stato in grado di aspettare il momento giusto e di trovare l’ angolazione corretta da cui raccontare questa storia».

Gèza, per prepararsi al ruolo di un Sonderkommando di Auschwitz che lotta contro l’impossibile per dare una sepoltura a un ragazzino che è sopravvissuto alla camera a gas solo per venire ucciso poco dopo da un «dottore» nazista, si è rivolto principalmente alla letteratura, alle memorie dei sopravvissuti: «in particolare gli scritti di Primo Levi mi hanno aiutato a comprendere tutti i dilemmi morali coinvolti. La vera sfida in quanto attore era di colmare il gap tra la mia realtà personale e quella condizione inimmaginabile».

In aiuto però è venuta anche la sua storia personale: il nonno, racconta, è sopravvissuto alla Shoah, e ha perso ad Auschwitz i genitori, la sorella incinta e il fratellino più piccolo. «A 12 anni ho trovato tra gli scaffali delle vecchie foto di persone che non conoscevo e ho chiesto a mio nonno chi fossero, così lui mi ha raccontato la storia, che da allora non mi ha più abbandonato». L’olocausto, continua infatti Röhrig, è un «trauma intergenerazionale»: i genitori hanno cercato di proteggere i bimbi dalla consapevolezza di ciò che era successo, «e così facendo ci hanno impedito di elaborare gli eventi».

In Il figlio di Saul, l’orrore di Aushwitz è filtrato dal punto di vista del protagonista, lasciando ai margini del visibile le immagini di ciò che sta accadendo e affidandole al suono, in particolare a quello emesso dal forno crematorio, «una sorta di enorme bestia sempre in funzione». «Non avevamo altra scelta – osserva l’attore – una rappresentazione complessiva di Auschwitz è qualcosa di troppo enorme, sarebbe pornografia.

Per questo le immagini sfocate sono compensate dalla colonna sonora, che infatti ha richiesto 5 mesi di post-produzione». Il 28 febbraio, Gèza Röhrig sarà al Dolby Theatre di Los Angeles insieme a Nemes per la notte degli Oscar, dato che Il figlio di Saul è candidato come miglior film straniero. «Vincere l’Oscar non mi interessa più di tanto», dice però l’attore. «Certo, ne sarei contento, ma talmente tanti capolavori non ricevono alcun riconoscimento, che in fondo è come vincere la lotteria, solo una questione di fortuna». Il figlio di Saul è dato però come vincitore quasi assicurato, e non solo per la nota sensibilità dell’Academy al tema dell’Olocausto.

L’orrore dei campi di sterminio è raccontato inoltre da un punto di vista inusuale, quello dei Sommerkommando, «di cui – dice Röhrig – si è iniziato a parlare intorno agli ’80, quando in vecchiaia quelli di loro che erano sopravvissuti hanno deciso di scrivere i loro ricordi in modo che non andassero perduti». Queste figure «invidiate e disprezzate dagli altri prigionieri» perché avevano un trattamento di riguardo e il terribile compito di condurre i nuovi arrivati – «a volte gente del loro paese, che conoscevano» – alle docce e bruciare i loro cadaveri, sono state a lungo additate con infamia. Ma, oltre a non avere una scelta, dopo quattro mesi venivano tutti uccisi, «perché erano gli scomodi testimoni dello sterminio». Proprio a Los Angeles Röhrig ha incontrato l’ultimo di loro ancora in vita: «ho avuto la gioia di stringergli la mano e di vedere che era ancora in grado di sorridere».