La Getty Images è ciò che più si avvicina a un archivio centrale di immagini del nostro tempo. La società ha costruito il maggiore catalogo commerciale di fotografie al mondo con una serie di spregiudicate acquisizioni di collezioni preesistenti e scritturazioni di fotoreporter. Gode oggi di una posizione quasi monopolistica come agenzia di fotografi freelance grazie all’aggressiva politica di protezione del copyright per cui è rinomata. È celebre il caso in cui il colosso di Seattle chiese 6000 sterline di risarcimento a una parrocchia inglese dello Staffordshire per avere utilizzato senza permesso alcune foto sul proprio sito web. Per questo la decisione annunciata pochi giorni fa, di «liberalizzare» 35 milioni di immagini (sugli 80 milioni di cui dispone la società), per scopi non commerciali, ha fatto molto discutere. Ma la verità è che più che di una iniziativa filantropica si è trattato di una constatazione: nella sfera digitale, come ha dichiarato Craig Peters, manager della Getty, «la quasi totalità delle immagini sono già a portata di copia/incolla gratuito per chiunque abbia un computer».

Da qui, il cambio di strategia: dalle immagini «liberate» dalla Getty verrà ora rimosso il marchio di proprietà sovraimpresso e verrà messo a disposizione sul sito dell’azienda il codice «embed» che permetterà di pubblicarle legalmente su blog e siti social non a scopo di lucro. Più che un atto di magnanimità è una decisione che riconosce l’impossibilità di pattugliare e «monetizzare» la totalità di internet – o almeno di farlo commercializzando direttamente i diritti ai milioni di utenti che fanno ogni giorno uso «non autorizzato» di immagini, senza trarne un guadagno. Più che una resa indica una «ritirata» strategica. La tecnica del «embed», infatti, implica la tracciabilità dell’utilizzo delle immagini in questione; con questo tipo di distribuzione alla Getty Images sarà automaticamente notificato dove appaiono le proprie immagini permettendo il «data mining» sui siti in questione e, quindi, eventualmente anche la vendita di pubblicità a fronte dell’utilizzo stesso.

È un modello simile a quello di Youtube, in cui le pubblicità vendute da Google accompagnano i video su tutti i siti che li riutilizzano. L’embed, inoltre, permette all’azienda «madre» di mantenere il controllo sulle immagini stesse ed eventualmente cancellarle in qualunque momento dai siti che le abbiano pubblicate. Il vostro blog o pagina Facebook potrebbero, insomma, venire «denudati» unilateralmente di tutte le loro immagini nel momento in cui la Getty così decidesse. Malgrado l’insistenza ufficiale della Getty sul dovere di proteggere i diritti degli autori, è evidente che si tratta di un tentativo di trovare un modello commerciale alternativo, dato che su internet il copyright tradizionale non funziona – come hanno scoperto da tempo le industrie discografiche, giornalistiche e audiovisive. Di fronte al proliferare di Tumblr, Flickr e tutte le varie piattaforme per immagini, quella dei fotografi è effettivamente fra le categorie più esposte a ciò che Jaron Lanier nel suo libro You Are Not a Gadget: A Manifesto, chiama la «distruzione delle classi creative» operata da internet. La diffusione «orizzontale» di immagini in rete chiama in causa la questione più profonda del controllo autoriale come dimostra ad esempio la recente polemica sul David di Michelangelo arruolato, fucile in mano, per far pubblicità a un fabbricante di armi dell’Illinois.

Dispute artistiche

Si possono, e si devono, fare le giuste distinzioni fra semplice uso pubblico o artistico e utilizzo commercial, ma la distinzione non è sempre facile. L’artista Shepard Fairey, ad esempio, ha basato alcune delle sue immagini più famose su fotografie preesistenti. La sua copertina per la persona dell’anno di Time nel 2011 (dedicata ai manifestanti di Occupy) è una elaborazione grafica di una foto scattata dal reporter del LA Weekly Ted Soqui. La sua immagine più celebre in assoluto, l’Obama dei manifesti elettorali Hope, è basata su uno scatto della Associated Press. In entrambi i casi, Fairey è stato denunciato e ha patteggiato risarcimenti con gli autori. Il dato fondamentale resta che la facilità di duplicazione, disseminazione e manipolazione delle immagini nell’era digitale ha radicalmente modificato la problematica dei diritti di autore delle immagini, estendendo il dilemma «ontologico» alla questione dell’appropriazione e riappropriazione dell’immagine «artistica». E il problema è sempre più attuale nel mondo dell’arte contemporanea.

La polemica che più è emersa nella cronaca è stato il processo intentato a Richard Prince. Prince è una art-star internazionale del calibro di un Jeff Koons o Damien Hirst, la cui pratica artistica fa perno sul riutilizzo di immagini attinenti alla cultura popolare e all’immaginario mediatico per creare opere che sono un commento sull’identità americana. Leggiamo da un’introduzione di una sua mostra a Palazzo Grassi: «A differenza di altri autori di analoghi processi artistici – da Jenny Holzer a Barbara Kruger, da Jeff Koons a Sherry Levine – l’artista non si considera un filtro tra la realtà e l’osservatore, ma un imbuto: attingendo dal vasto repertorio visivo della cultura pop, egli rielabora immagini esistenti e le ripropone trasformate». Prince riconduce la sua opera al suo lavoro di archivista per un’editrice di riviste per cui era incaricato di archiviare ritagli di articoli. Negli anni ’80 si impone per prima volta all’attenzione con la serie Cowboys, composta di fotografie di pubblicità della Marlboro. Una di queste ri-fotografie viene venduta all’asta da Sotheby’s per 3,4 milioni di dollari – un record storico assoluto per una fotografia, perdipiù un lavoro intenzionalmente non-originale.

I commenti di Richard Prince

L’appropriazione di immagini «correnti» è naturalmente parte integrante del metalinguaggio postmoderno, da Warhol a Cattelan e l’ossessione di Prince si estende a copertine di romanzi pulp (Nurses), foto amatoriali fatte da Hells Angels (Girlfriends), vignette umoristiche, carrozzerie di auto, ognuna un commento sul consumismo, la mercificazione, la saturazione e la «bulimia iconografica». Prince però estende il suo commento alle immagini di autorialità «alta» comprese e quelle di altri autori, come nel caso della fotografia soft-porn di una Brooke Shields nuda all’età di dieci anni scattata da Gary Gross negli anni 70 e rifotografata da Prince col titolo di Spiritual America (l’opera riproduceva anche lo scandalo: nel 2009 la ri-fotografia è stata rimossa da una mostra presso la Tate Modern, in seguito a proteste). L’intervento di Prince può essere «effettivo» con l’aggiunta di segni o modifiche o di semplice «ricontestualizzazione» – il caso degli uomini Marlboro o di Brooke Shields – cosicché la successiva vendita delle ri-foto per molti milioni di dollari costituisce quasi un appendice all’opera stessa. Si tratta insomma di operazioni di «ricalibrazione» di quello che Baudrillard ha chiamato «l’efficacia simulacrale dell’immagine», un intervento artistico che mira a liberare i significati reconditi dell’artefatto.

È quello che Prince ha sostenuto anche quando un fotografo francese, Patrick Cariou, lo ha citato in tribunale per danni, chiedendo un risarcimento di molti milioni. Per la sua serie Canal Zone, infatti, Prince si è ri-appropriato di immagini tratte da un reportage di Cariou sui Rastafariani in Giamaica. Le foto, frutto di diversi anni di viaggi e lavoro, erano state pubblicate in un libro fotografico, Yes, Rasta nel 2000. Nel 2008 Prince le ha rifotografate e stampate, producendo una serie di 35 lavori subito venduti dal suo gallerista Larry Gagosian a prezzi adatti alla sua reputazione (oltre 10 milioni di dollari). È comprensibile, quindi, la costernazione del fotografo «depredato» cui un tribunale federale di New York ha dato ragione, ordinando il risarcimento e la distruzione delle opere plagiate.

Ma l’anno scorso la sentenza è stata ribaltata in appello. A differenza del caso Fairey, il secondo verdetto ha dato ragione all’artista sul fotografo, considerando i suoi lavori legittime opere d’arte e, dunque, protette dal primo emendamento e la libera espressione. Secondo il giudice, l’intento non era stato il plagio, ma una trasformazione per nuovi fini estetici delle immagini, un’operazione che non danneggia, e semmai giova al valore dei lavori originali. La decisione ha deluso la American Society of Media Photographers, il cui portavoce, Dale Cendali, ha affermato: «Se il tuo lavoro consiste nello strappare pagine dal libro di qualcun altro, metterci su del colore e venderle per 10 milioni di dollari, ai più sembrerebbe logico che ci dovrebbero essere delle conseguenze penali».

È indicativo che nella causa Google si sia invece costituita parte civile a favore di Prince. Come monopolista di internet, Google (una azienda che ha già tentato di digitalizzare le grandi biblioteche del mondo) ha ogni interesse al massimo «liberismo» dei contenuti creativi. Come ora anche Getty Images, Google non ha più come business model la tradizionale protezione dei diritti d’autore ma la massima disseminazione e la diffusa monetizzazione delle opere.