«Mohammed era solare. Aveva tanti amici, era sempre divertente. Veniva nel mio negozio per farmi gli scherzi». Saed Abu Khdeir è in piedi davanti alle saracinesche chiuse dove martedì notte suo nipote è stato rapito. Mancano poche ore al funerale: il corpo del 16enne di Shuafat (ucciso come rappresaglia per la morte di tre coloni) sarà riconsegnato alla famiglia tra poco, prima della preghiera di mezzogiorno. Il quartiere si prepara a onorarlo. «Andava a scuola qua vicino – racconta Saed al manifesto – Non aveva ancora deciso cosa fare da grande, ma studiava molto. Era davvero intelligente. Di una cosa era sicuro: sarebbe diventato qualcuno».

«L’ultima volta l’ho visto tre ore prima del rapimento, era passato a salutarmi – continua lo zio – Alle 3.30 era seduto qui, di fronte a questi negozi, a due metri da casa. Ha incontrato un amico per andare in moschea insieme. L’amico si è allontanato per vedere altri ragazzi. In quel momento, come mostrano le telecamere, una macchina si è avvicinata e due uomini sono scesi. Hanno scambiato qualche parola con Mohammed, poi lo hanno preso uno per un braccio e uno per l’altro e l’hanno trascinato in auto. Mio nipote ha gridato, gli amici sono accorsi ma non hanno fatto in tempo. La macchina è corsa via».

La famiglia ha subito chiamato la polizia, che – dice Saed – ha impiegato troppo ad arrivare: «Ci sono almeno 30 telecamere nel tragitto verso la foresta dove è stato trovato perché, per una parte, segue lo stesso percorso del tram. Se avessero voluto, avrebbero impiegato pochissimo tempo a individuare i responsabili. Magari a fermarli. E invece no: quegli uomini lo hanno picchiato, lo hanno ucciso, gli hanno dato fuoco».

Dentro la casa a due piani degli Abu Khdeir, i genitori restano in attesa. Da fuori, sentiamo le lacrime. La cugina di Mohammed si avvicina: «Sono distrutti». Nel sottoscala sono pronte decine di bottiglie d’acqua e scatole di datteri da offrire a chi verrà a porgere le condoglianze, fuori un’ampia tenda ripara amici e parenti dal sole di luglio. Sono le dieci, i poliziotti israeliani hanno già chiuso Shuafat: jeep militari e auto della polizia controllano ogni entrata del quartiere, giovedì teatro di una guerriglia che ricorda i tempi della Seconda Intifada.

Lungo la strada principale, centinaia di pietre, cartelli stradali divelti, i resti di incendi e delle barricate che i ragazzi palestinesi avevano innalzato per fermare l’avanzata della polizia. A terra, le cipolle per difendersi dagli effetti dei lacrimogeni, candelotti e bombe sonore e i segni dell’attacco palestinese contro la linea del tram.

Ieri, dopo la preghiera del venerdì, il primo di Ramadan, il corpo di Mohammed è stato consegnato alla famiglia da un’ambulanza della Mezza Luna Rossa: «Ci siamo rifiutati di avere indietro il corpo di notte, come proposto dalle autorità israeliane – ci aveva detto lo zio poco prima – Volevamo che tutti potessero partecipare alle esequie».

Subito è partito il funerale: decine le bandiere palestinesi, migliaia i presenti che hanno accompagnato il piccolo con gli slogan («Dio è grande», «Siamo stanchi delle ingiustizie») prima di scontarsi con le forze militari israeliane schierate fin dalle prime ore del mattino. Immediato il lancio di gas lacrimogeni e granate stordenti contro i manifestanti che hanno reagito con le pietre: dopo ore di scontri, i feriti – secondo fonti mediche – sarebbero almeno 35.

Manifestazioni anche a Sakhnin e Taibeh in Palestina ’48 (l’attuale Stato di Israele) e in Cisgiordania, a Qalandiya, Bi’lin e Kufr Qaddum. Stesso clima nei quartieri di Ras al-Amud e Wadi Joz, a Gerusalemme Est, dove subito dopo la preghiera delle 12.30 manifestanti palestinesi si sono scontrati con la polizia israeliana.

Fin dall’alba la Città Santa è stata blindata. Migliaia i poliziotti e i soldati dislocati in ogni angolo di Gerusalemme Est e dentro la Città Vecchia, destinazione dei fedeli musulmani che ieri avrebbero voluto raggiungere la Moschea di Al-Aqsa per il primo venerdì di Ramadan.

Lungo le strade principali i soldati si sono preparati, accompagnati da decine di autobus civili, dai cavalli, dalle jeep e dai cannoni ad acqua. Alle 11.30 la Porta di Damasco – una delle principali entrate alla Città Vecchia – è stata chiusa: i poliziotti aiutati da gruppi di coloni hanno transennato l’ingresso, ogni fedele ha dovuto presentare il permesso di ingresso. E se la Porta di Damasco restava tranquilla, gli scontri sono esplosi intorno alla Spianata.

A causa delle restrizioni introdotte da Israele per la Cisgiordania, quest’anno solo le donne sopra i 45 anni e gli uomini sopra i 50 (esclusi i residenti a Hebron) hanno ottenuto il permesso di ingresso. Misure dure che hanno cancellato in un colpo le lunghe file ai checkpoint, tipiche di ogni Ramadan. Ieri mattina il checkpoint 300, tra Betlemme e Gerusalemme, era quasi vuoto: un clima surreale. Dall’altra parte in Città Vecchia la folla di sempre non c’è: «Hanno chiuso Al Aqsa a tanta gente – ci dice un negoziante – La prossima volta rifiuteranno il permesso anche ad Allah».