Un dolore straziante, quello della famiglia Abu Khdeir, che si amplifica di ora in ora. Il corpo del giovane Mohammed, rapito e brutalmente ucciso martedì da un gruppo di coloni come rappresaglia per la morte dei tre adolescenti israeliani, non è ancora tornato a casa. Il funerale era previsto per ieri mattina, ma non si è tenuto per il ritardo nella consegna del corpo da parte delle autorità israeliane, che hanno giustificato il rinvio con il timore di altri scontri durante le esequie.

Il campo profughi di Shuafat, ancora attraversato dallo choc di una morte incomprensibile (a cui i più giovani avevano reagito martedì scaraventando la rabbia contro le forze militari), dovrebbe poter onorare il piccolo Mohammed all’alba di oggi. Nel pomeriggio il quartiere di Beit Hanina, a Gerusalemme Est, è stato teatro di scontri: i manifestanti palestinesi hanno innalzato barricate, rimosse dalle jeep militari israeliane mentre i soldati rispondevano con il fuoco.

Ieri, giorno dell’autopsia sul cadavere del piccolo (a cui ha preso parte, su richiesta della famiglia, un medico palestinese), i media arabi hanno riportato la notizia del fermo di due sospetti: testimoni avrebbero riconosciuto i responsabili dell’uccisione di Mohammed, costretto a salire su una Honda Civic da tre persone. I testimoni avevano avuto il tempo di leggere il numero di targa, poi consegnato alla polizia israeliana.

Dopo una giornata di violenti scontri – almeno 232 feriti – nella notte di ieri le forze israeliane hanno arrestato altri 13 palestinesi (sono oltre 640 le persone a cui l’esercito ha stretto le manette ai polsi, nell’ambito delle indagini sul rapimento, molte delle quali in detenzione amministrativa, senza accuse formali né processo). A Beit Kahlil, i militari hanno compiuto un raid nella sede di un ente di beneficienza islamico, a cui un gruppo di ragazzi palestinesi ha risposto con il lancio di pietre.

In mattinata epicentro degli scontri è stato il villaggio di Anata, tra Gerusalemme e Ramallah, a est di Shuafat, comunità stretta tra il muro di separazione e una base militare. Quattro palestinesi sono rimasti feriti, uno in modo grave. A Surif, nord di Hebron, un gruppo di coloni ha tentato di occupare una casa palestinese, difesa dai residenti fino all’arrivo dell’esercito che ha colpito con proiettili di gomma i palestinesi presenti, ferendone tre. Raid anche nel campo profughi di Al Arroub, tra Betlemme e Hebron.

Protagonisti sono ancora i coloni. Le azioni ‘Price Tag’ si moltiplicano e, con loro, cresce il sostegno di parte dell’opinione pubblica israeliana: sono decine di migliaia i soldati e i civili che hanno aderito in queste ore a campagne lanciate nei social network e inneggianti all’uccisione di palestinesi. Foto raccapriccianti: ragazzine sorridenti, militari a petto nudo, addirittura animali, soldati con in mano fucili M16, tutti fotografati con accanto la scritta “Morte agli arabi”, “Odiare gli arabi non è razzismo, è moralità”.

Dicono di volere vendetta, ma quella che si sta drammaticamente prefigurando è una rappresaglia: colpire palestinesi in quanto tali, in quanto arabi, campagne che riportano alla mente le stragi, i pogrom e le deportazioni del secolo scorso, quando il nemico era l’ebreo, lo zingaro, l’omosessuale o il comunista. Colpiti in quanto portatori di un’identità.

La campagna – accompagnata alla marcia anti-araba di lunedì sera a Gerusalemme, seguita da una vera e propria caccia al palestinese – preoccupa la leadership moderata israeliana e lo stesso premier Netanyahu, che teme la condanna internazionale per azioni ingiustificabili anche dagli alleati occidentali. Ieri il ministro della Giustizia e capo negoziatrice, Tzipi Livni, ha chiesto alla polizia di indagare il terrorismo domestico, «quello ebraico»: «Non dobbiamo lasciare in mano ai cittadini l’applicazione della legge, neppure nei momenti più difficili. Sento e vedo messaggi di incitamento alla vendetta. Questa non è la via del sionismo, non è la via dello Stato di Israele».

Insomma, conclude Livni, noi siamo uno Stato e non un’organizzazione terroristica come Hamas. La stessa che da due settimane viene accusata del rapimento e l’uccisione dei tre coloni e contro cui il governo israeliano sta pianificando l’intervento: ieri sera il governo di Tel Aviv si è riunito per la quarta volta da lunedì senza trovare un accordo tra chi – Casa Ebraica – vuole puntare sull’espansione coloniale e chi – Yesh Atid e i moderati – chiede una reazione diretta contro Hamas. La morte di Mohammed ha scombinato le carte in tavola: dopo le campagne interne anti-arabe, Bibi sa di non poter ora usare un pugno troppo duro e resta in attesa.

Ma a terrorizzare la popolazione gazawi è il dispiegamento di truppe al confine. Carri armati in posizione, truppe pronte. Gaza trema.