Il formato (quasi) quadrato è sempre lo stesso. Sedici centimetri di lunghezza per sedici centimetri virgola cinque di altezza. Quei 5 mm fanno la differenza, enfatizzando un quasi impercettibile slancio verticale. Un formato che ricorda la stampa a contatto delle lastre del banco ottico che Gerry Johansson (Örebro 1945, vive e lavora a Höganäs, Svezia) usava all’inizio della sua professione di fotografo, per passare alla più maneggevole Rolleiflex con l’ausilio, talvolta, del monopiede. Quanto alla stampa, per Johansson fa parte del meticoloso processo manuale che lo vede attore nella camera oscura costruita nella sua abitazione Bauhaus, dove ci sono anche studio e archivio. Costruisce personalmente anche le cornici che dipinge nelle gradazioni bianco/grigio.

«È una giusta dimensione», – spiega il fotografo svedese nell’ex capannone industriale dello Spazio HEA di Castelfranco Veneto che ospita la sua mostra personale At home in Sweden, Germany and America, curata da Stefania Rössl e Massimo Sordi, organizzata da OMNE-Osservatorio Mobile Nord Est nell’ambito del programma P=S+N Paesaggio, Soggetto, Natura (fino al 17 novembre; dal 14 maggio al 5 giugno 2020 da Officine Fotografiche a Roma) – «Il pubblico deve avvicinarsi alle fotografie per poterle guardare. Non mi aspetto che le persone si soffermino con attenzione su ogni immagine. Danno uno sguardo e procedono verso quella successiva. Che, poi, è quello che faccio anch’io quando fotografo. Scatto, poi mi guardo intorno alla ricerca di qualcosa di diverso e vado avanti».

Johansson ha già esposto in Italia al SI FEST – Savignano Immagini tra il 2012 (Deutschland) e il 2014 (Along some roads), partecipando al progetto sul territorio Adriatic Coast to Coast. In occasione di P=S+N – Paesaggio, Soggetto, Natura, insieme a Guido Guidi (la cui mostra personale In Veneto, 1984-89 è allestita al Museo Casa Giorgione), è stato invitato a realizzare una campagna fotografica sul paesaggio naturale e antropico compreso nell’area veneta tra Castelfranco Veneto e la pedemontana. Fotografie che entreranno a far parte dell’archivio del territorio che OMNE ha iniziato a costruire dal 2016, organizzando residenze d’artista, camminate pubbliche, workshop, conferenze e mostre raccolte nel volume OMNE/WORK 2016- 2018, la cui veste grafica pluripremiata è firmata dallo studio Otium e Damiano Fraccaro (Edizioni LetteraVentidue, 2018).

Nel titolo della mostra At home in Sweden, Germany and America, quel «at home» (a casa) sottolinea il sentimento di familiarità con i luoghi che ha fotografato?
Sì, penso che si riferisca alla mia familiarità con la cultura e le tradizioni dei luoghi e alla capacità di entrare in relazione con il paesaggio o a ciò che sembra tale. Naturalmente è diverso a seconda del paese. La Germania, ad esempio, fa ancora i conti con la guerra e la divisione del paese. Nella prima foto della serie Deutschland, scattata nella Germania Orientale (Neustrelitz, 2005n.d.R.), si vede una casa con una lunga striscia orizzontale che ne incontra un’altra verticale. Una croce, quindi, in cui al di là di quello che potrebbe sembrare un elemento decorativo, ho evidenziato un aspetto critico legato al sistema, all’oppressione della religione.

Agli Stati Uniti, nel ’62-’63, è legato il suo esordio di fotografo. Tornato da quel viaggio realizzò un album fotografico che fu il regalo per il 48simo compleanno di sua madre. La fotografia come qualcosa di prezioso?
Sì, anche perché sono stato lontano dalla famiglia per un anno. Avevo 17 anni! Non fu facile, anche se mantenevo i contatti con la mia famiglia e con gli amici scrivendo una lettera a settimana. Mia madre ha conservato tutte quelle lettere, ma io non le ho più rilette (ride). Forse dovrei, ma ancora non l’ho fatto.

Perché?
Non saprei. Non credo che sia per paura. Se quella separazione fosse stata problematica, probabilmente le avrei già rilette. Ma è stato un periodo felice, come si vede nell’album. Un album grande che contiene un centinaio di foto, forse centocinquanta: ritratti dei parenti svedesi che stavano in America e scatti newyorchesi di street photography. La cosa interessante, tornando a quei negativi che non avevo più visto da oltre trent’anni, è che nel momento in cui li ho ristampati mi sono accorto di non ricordare nulla. Era come stampare le foto di un’altra persona. Poi, pian piano qualcosa è riemerso, ma oltre che riconoscere alcuni luoghi non sono stato in grado di ricordare le storie. E dire che per ognuna delle foto esposte in questa mostra potrei scrivere un racconto!

Camminare e fotografare andando in giro per New York fu un’esperienza decisiva per la sua formazione…
Vivevo a Essex Fells, ad un’ora da New York. Hai mai visto la serie televisiva I Soprano? È stata girata proprio lì. L’ho trovata interessante proprio perché mi ha dato la possibilità di riconoscere i luoghi (ride). Una volta alla settimana prendevo l’autobus e rimanevo in città dalla mattina alla sera. Quando si hanno 17 anni sembra tutto naturale, andare nei club di jazz, vedere un film francese o semplicemente camminare e fotografare. No, all’epoca non pensavo che tutto ciò fosse speciale. Ad eccezione, forse, del club fotografico che frequentavo e che era per fotografi professionisti, quindi ad un livello più elevato rispetto alla mia esperienza precedente.

Andò anche al MoMA per vedere le mostre fotografiche…
Al MoMA, lo spazio riservato alla fotografia era più o meno quanto quello che in questa mostra è dedicato alla serie Sweden (ride), ma è stato importante andarci.
La cosa divertente è che della mostra che vidi ricordo solo una fotografia, realizzata da un noto fotografo svedese, Lennart Olsson. C’è una valle con un albero… (schizza con la biro un piccolo disegno sul foglio bianco) e in mezzo il cielo. Una foto molto bella (Sainte-Agnès, Provence, 1955n.d.R.). Mi colpì la struttura, la composizione compressa dell’immagine che era molto moderna per quei tempi. Nelle fotografie di allora l’albero sarebbe stato intero, così come il paesaggio. Lui, invece, aveva tagliato la parte superiore dell’albero, incorniciando il paesaggio.

Il cinema (come la musica jazz, soprattutto Miles Davis) è una sua passione. In altri contesti ha citato anche i fratelli Cohen e nel 2008 andò a Ulan Bator, in Mongolia, sulle tracce di «Lettre de Sibérie» (1957) di Chris Marker…
Negli anni ‘60 il cinema svedese era rappresentato da Ingmar Bergman e la fotografia in molti dei suoi film è straordinaria. Il cinema è stato determinate in un’epoca in cui la fotografia ancora non si vedeva nei musei. Diversamente dai film americani, in cui le scene erano dominate da grandi paesaggi all’interno dei quali i personaggi erano piccoli, nei film europei – soprattutto svedesi – la scena era compressa, ravvicinata. Quanto a Chris Marker, rimasi colpito da una scena che avevo visto tanto tempo prima a Göteborg, nel’68 o forse nel ’69. La famosa sequenza di Lettre de Sibérie in cui si vede arrivare una grande automobile sovietica, tipo limousine, in una strada polverosa. L’auto, poi, gira l’angolo. La scena dura 10 minuti e 50 secondi e viene ripetuta tre volte, una con una voce che commenta parlando di socialismo, l’altra di comunismo e la terza di capitalismo. Tre differenti idee politiche all’interno della stessa scena. Pensai che fosse una buona idea andare a Ulan Bator per cercare quell’angolo di strada (ride). Solo poco prima della partenza, però, scoprii che il film non era stato girato lì ma in una città russa al confine con la Mongolia. Ormai avevo già prenotato aereo e hotel per cui partii (ride). Comunque ho trovato Ulan Bator molto interessate. È un miscuglio di cultura russa, europea, asiatica e di altri contesti, soprattutto turchi con statue e ritratti di Atatürk nelle scuole e all’università.

Tornando alla struttura e alla composizione, qual è la relazione tra la grafica – che ha studiato alla Scuola di Design e Artigianato di Göteborg, lavorando a lungo in questo settore – e la fotografia?
Il disegno grafico è in stretto rapporto con l’impaginazione, a come viene collocato il testo all’interno della pagina e al suo rapporto con l’immagine. È un fatto di organizzazione. Credo che sia lo stesso per la fotografia. La mia fotografia è organizzata, non è caotica. Mi piace che ci sia una struttura. Non fotografo cose veramente speciali, ma all’interno di una struttura quello che è ordinario diventa un po’ speciale.