Si alternano fino al 2 marzo al Teatro alla Scala di Milano Thaïs di Jules Massenet e La dama di picche di Pëtr Il’ič Čajkovskij, due opere preziose e poco rappresentate: la prima mancava da 80 anni, la seconda da quasi 20. La vicinanza dei due titoli, che hanno visto la luce a distanza di appena 4 anni, La dama di picche nel 1890 a San Pietroburgo, Thaïs a Parigi nel 1894, genera un interessante effetto di risonanza, dandoci la possibilità di “toccare con mano” che ne è del romanticismo alla fine dell’Ottocento in due culture distanti come quella francese della Terza repubblica e quella russa dell’Impero. Il sostrato letterario è lo stesso. In entrambi i libretti tornano i tre miti del decadentismo analizzati in un celebre saggio da Mario Praz: la carne, intesa come dimensione erotica più o meno sessualmente connotata, la morte, intesa come rifugio dal dolore generato dall’impossibilità di appagare la carne o come conseguenza del male compiuto più o meno avvertitamente, il diavolo, inteso come tentazione, tormento o illusione che inducono al male. Diverso è invece il rapporto con il passato: Massenet estenua gli stilemi romantici in uno stile di parnassiana compostezza, trasformando il turgore e l’esagitazione in estetismo; Čajkovskij rimane nell’alveo del romanticismo maturo sfrondandone gli effettismi e guardando alla tradizione settecentesca con una nostalgia di impronta arcadica, come fosse un’età dell’oro della musica e del mondo in generale. V

VALERY GERGIEV,  che a causa della pandemia non ha potuto dirigere una parte delle prove, sostituito dal giovane Timur Zangiev, è così padrone della partitura, interiorizzata, vivisezionata e restituita tante e tante volte sui palchi di tutto il mondo, da dirigere la sera della prima l’orchestra scaligera libero da ogni ansia di scavo o innovazione. Tra le sue mani La dama di picche sembra essere semplicemente quello che dovrebbe essere: un racconto musicale di una bellezza abbagliante e di una intensità a tratti dolorosa, convogliate in un’esecuzione controllata e nitida, dove l’emozione scorre, invischia, irretisce senza confondere o stordire. Peccato il miracolo della prima, andata in scena la sera prima dell’invasione russa dell’Ucraina, sia destinato a non ripetersi, dal momento che il direttore, putiniano della prima ora, ha lasciato cadere nel silenzio l’invito del sindaco di Milano e del sovrintendente del teatro a prendere le distanze dalla politica sciagurata del suo paese e sia partito alla volta di Mosca, ricordando al mondo che il genio non sempre è garanzia di umanità.

L’ALLESTIMENTO di Matthias Hartmann, su drammaturgia di Michael Küster, con le scene di Volker Hintermeimer, i costumi di Malte Lübben, le luci di Mathias Märker e le coreografie di Paul Blackman, puntando tutto sull’astrazione che svuota lo spazio e il tempo, fatta eccezione per la festa del II atto in cui il pastiche musicale mozartiano viene reso con costumi d’epoca rielaborati, ha il pregio di non interferire minimamente con il lavoro del direttore, raggiungendo la punta massima della sua intensità nel VI Quadro del III atto, che si svolge nei pressi del Canale d’Inverno, avvolto in una nebbia che fagocita tutto e animato dalle straordinarie performance sia canore che attoriali di Asmik Grigorian (Lisa) e Najmiddin Mavlyanov (Hermann), capaci di rendere naturalisticamente perfino le incursioni del sovrannaturale. Bravissimi anche Julia Gertseva, Alexey Markov e Roman Burdenko. Resta una domanda: torneranno in scena nel I atto i giovani ufficiali russi con mitra in mano mentre cantano: «La patria salveremo, / insiem combatteremo, /nemici innumerevoli / in schiavitù trarremo»?

GIORNATE CONVULSE alla Scala, perché è scoppiato anche il caso Netrebko, il celebre soprano che era attesa al Piermarini insieme al marito Yusif Eyvazov per alcune recite di Adriana Lecouvreur di Cilea. La prima il 9 marzo. Un forfait per alcuni dettati da motivi di salute, subito smentiti dalla stessa cantante che sul suo profilo su Instagram, spiega: “Non è vero. Sto benissimo, ma non vengo lo stesso”.