Quando, all’indomani della seconda guerra mondiale, gli Alleati diedero il via nella Germania occupata alla breve stagione della denazificazione, divisero i tedeschi in quattro categorie rispetto al presunto grado di responsabilità di cui si erano macchiati nei confronti dei crimini del Terzo Reich, a partire dalla Shoah. L’ultimo livello era rappresentato dai cosiddetti Mitläufer, le «persone che avevano camminato con la corrente», la fascia più consistente della popolazione che non aveva ucciso nessuno con le proprie mani ma non si era neppure opposta al genocidio, traendone piuttosto talvolta anche qualche vantaggio. È la storia di una di queste famiglie, quella dei suoi nonni paterni, guidata da Karl Schwarz nella Mannheim degli anni Trenta che racconta la giornalista franco-tedesca Géraldine Schwarz ne I senza memoria (Einaudi, pp. 334, euro 21, traduzione di Margherita Botto) un libro prezioso che, sulla scorta di quanto fece lo storico americano William Sheridan Allen con Come si diventa nazisti (1968), descrivendo l’avvento del nazismo tra gli abitanti della cittadina di Nordheim, ricostruisce il reticolo di apatia, conformismo e inconfessabili interessi che garantì a Hitler un larghissimo e spesso entusiasta consenso.

La giornalista Géraldine Schwarz

Il suo libro racconta prima di tutto una terribile scoperta: il comportamento che i suoi nonni ebbero durante il nazismo.
Mio nonno aveva 30 anni quando Hitler salì al potere. Non era né un nazista né un antisemita convinto. Ha agito per conformismo e opportunismo. Nel 1935 si unì al Partito nazista per migliorare la propria carriera e nel 1938 cercò di trarre vantaggio dalle misure di «arianizzazione», acquistando ad un prezzo favorevole un’attività da una famiglia ebrea costretta a vendere. Non solo. In seguito mio padre, nato nel 1943, scoprì delle fotografie che mostravano l’appartamento di famiglia nel 1939: i mobili erano molto più rustici di quelli che ricordava e perciò ha sospettato che i suoi genitori ne avessero acquistati di nuovi già appartenuti alle famiglie ebree. Ciò che è particolarmente scioccante è che la maggior parte di queste vendite aveva luogo negli stessi appartamenti degli ebrei subito dopo la loro deportazione: gli acquirenti sapevano benissimo che quegli oggetti erano appartenuti ad un vicino, al fornaio locale, al loro medico. Come la maggior parte dei tedeschi, i nonni non hanno commesso direttamente dei crimini, ma il loro atteggiamento, moltiplicato per decine di milioni di persone come loro ha permesso al Terzo Reich di realizzare la sua impresa criminale.

Lei cita la storica Christiane Fritsche che spiega come nel caso di beni e aziende «arianizzate», la popolazione tedesca «aveva confortato i dirigenti nazisti nella loro impresa disumana, e spianato la strada all’omicidio». Il consenso di massa al nazismo si basò soprattutto su questo atteggiamento?
Dopo la guerra, la generazione dei miei nonni coltivò a lungo il mito secondo cui all’epoca era impossibile dire di «no» senza rischiare la vita. Questo è in parte vero: il sistema repressivo del regime infondeva paura e scoraggiava il dissenso. Ma era anche molto attento all’opinione pubblica. Un episodio dimostra che la popolazione non era poi così indifesa come voleva far credere: nel 1941, la forte contestazione di cittadini e vescovi cattolici e protestanti riuscì a dissuadere Hitler dal continuare il programma di eutanasia del T4 che mirava a sterminare le persone disabili. Per la popolazione era difficile intervenire durante le espulsioni e le deportazioni degli ebrei senza essere arrestati. Allo stesso modo però nessuno era costretto a trarre vantaggio dalla difficile situazione degli ebrei: si poteva non accettare il lavoro di un collega licenziato perché ebreo o non acquistare un’azienda o i mobili di chi era costretto alla fuga o alla deportazione. La spoliazione dei beni degli ebrei, e non solo in Germania, coinvolse molti ambienti: lo Stato, i privati, commercianti, aziende, gallerie d’arte, musei, ma anche intermediari, agenti immobiliari, broker, banche, notai, avvocati, case d’asta. Questa condotta smentisce inoltre la scusa principale evocata da molti tedeschi di allora che sostenevano di non aver saputo nulla del destino che attendeva gli ebrei: le persone che si dividevano «il bottino» non avevano la sensazione che i proprietari non sarebbero mai tornati, perché morti?

Fu la generazione dei figli e non già quella dei padri a rimettere in discussione quel passato. Dalla fine della guerra erano trascorsi quasi vent’anni: perché ci fu bisogno di così tanto tempo?
Dopo la guerra, Julius Löbmann, uno dei pochi sopravvissuti della famiglia ebrea che vendette la sua azienda a mio nonno, chiese una riparazione. Ci fu un carteggio tra mio nonno e gli avvocati di Löbmann: lui cercò di negoziare a lungo l’importo dovuto, ma alla fine un tribunale lo costrinse a pagare. In quelle lettere negava le proprie responsabilità e gradualmente arrivava ad assume il ruolo della vittima. È vero che ha sofferto anche lui a causa della guerra, come il resto dei tedeschi, ma è stata la conseguenza del loro sostegno irresponsabile e fanatico al Führer. Ma quell’atteggiamento era sintomatico del clima che si respirava nella società tedesca: poiché la maggioranza aveva sostenuto Hitler, nessuno aveva interesse a scavare nel passato. La popolazione aveva accettato il processo di Norimberga che condannava i leader nazisti, ma non erano pronti ad ammettere la loro responsabilità come Mitläufer. Alla fine, dopo un decennio dalla fine della guerra non c’erano quasi più nazisti in prigione e gli alleati erano soddisfatti della rapida ricostruzione economica e democratica della Germania occidentale. Ma in realtà la democrazia era solo istituzionale, perché nelle mentalità, nulla era realmente cambiato. Fortunatamente c’erano degli eroi che da soli riuscirono ad opporsi all’amnesia in cui la società tedesca si era immersa. In particolare Fritz Bauer, un giudice ebreo tornato dall’esilio. Fu lui che iniziò i processi di Auschwitz dal 1963 che per la prima volta rivelarono ai tedeschi la mostruosa dimensione dell’Olocausto. Subito dopo arrivò la rivolta della generazione dei «figli», come mio padre, che negli anni Sessanta iniziarono a chiedere ai loro genitori: «Ma cosa avete fatto davvero durante la guerra»? La questione del passato fu così al centro della rivolta studentesca degli anni Settanta in Germania. E da lì in poi l’intera società si è messa in discussione e, pian piano è cambiata. Buona parte dei tedeschi ha usato il lavoro sulla memoria per far sì che la democrazia mettesse salde radici nel paese, rendendo i cittadini responsabili del loro ruolo nella società, del loro peso nel corso del Storia.

Il suo libro indica l’urgenza di rivitalizzare il lavoro sulla memoria per contrastare l’onda del populismo di destra che continua a crescere in Europa.
Ritengo che i paesi che evitano di confrontarsi con il proprio passato siano i più vulnerabili rispetto al populismo e che il lavoro sulla memoria aiuti a consolidare la democrazia, come è successo a lungo nella Germania occidentale. Credo che se il partito di estrema destra dell’AfD è riuscito ad entrare in Parlamento negli ultimi anni sia soprattutto grazie al successo che ha ottenuto nella ex Rdt dove nessun percorso sulla memoria è stato compiuto durante il regime comunista. Allo stesso tempo si deve tener conto del fatto che tra le giovani generazioni sembra emergere una certa stanchezza rispetto a questi temi: un contesto che ci deve incoraggiare a pensare al tema della memoria in modo diverso, più pragmatico, che ci consenta di imparare davvero dal passato. E questo discorso vale per la Germania come per l’intera Europa. La memoria è un’arma indispensabile per i cittadini nel riconoscere nel tempo ciò che minaccia il loro benessere, la loro libertà, la loro identità e la pace. In paesi come l’Italia e la Germania la storia del Fascismo e del Terzo Reich forniscono oggi un manuale particolarmente utile per affrontare le «fake news», la crisi della ragione e il ritorno di un pericoloso pensiero autoritario che evoca i metodi e la concezione non democratica del potere propria degli anni Trenta.

La mancanza di empatia, il «farsi gli affari propri» che contribuirono, insieme all’odio e al razzismo, a rendere possibile lo sterminio, sembrano interrogare ancora oggi le nostre società. Quell’indifferenza, ora spesso esibita verso i migranti, i rom e coloro che vengono considerati come «diversi», continua ad uccidere?
La memoria ci consente anche di prendere coscienza della nostra fallibilità. Di comprendere quei meccanismi sociali e psicologici che trasformano un uomo o una donna comuni in un complice di crimini, attraverso la cecità, il conformismo, la paura, l’opportunismo e l’apatia. In un momento in cui il razzismo e l’odio contro rifugiati e musulmani stanno raggiungendo il culmine, dobbiamo tenerlo presente: l’apatia di massa uccide più dei mostri. Uno dei motti delle SS era: «l’empatia è una debolezza». Senza questo ricordo, la dignità umana è in pericolo, e non solo quella degli altri. Perché quando inizi a cavalcare l’onda dell’esclusione, il cerchio dei «nemici del popolo» continua a crescere sotto l’effetto della paranoia e finisce per inghiottire tutti.