Lo spettacolo è la piccola rivelazione di quest’ultimo scorcio di stagione. Passato in un paio di festival (da Castrovillari alle Colline torinesi), è ora in programmazione più lunga dentro una rassegna dedicata alla nuova drammaturgia dello stabile genovese che partecipa alla produzione. Titolo: Geppetto e Geppetto (al Duse fino a sabato 18 giugno). Tindaro Granata ne è autore, regista e coprotagonista, dopo alcune altre prove che già avevano suscitato un certo interesse. La citazione da Collodi apre oltretutto curiosi scenari alla rilettura del Pinocchio, ma è l’oggi che diventa protagonista sulla scena, senza compiacimenti né ammiccamenti facili.

Buona parte dello spettacolo, e l’inizio folgorante in particolare, mostra due innamorati e coraggiosi giovanotti che, essendo coppia affiatata da diversi anni, desiderano ardentemente un figlio. E come il mitico falegname collodiano se lo ricavò da un pezzo di legno tra lo scetticismo dei suoi amici e conoscenti, loro se lo devono creare e procreare tra le molte insidie su cui l’universo nostro paese si è edotto, ha dibattuto e si è scontrato durante la tormentata discussione e approvazione della legge Cirinnà. Anzi, in diversi momenti, come fosse un giornale radio teatrale, le luci si abbassano in palcoscenico, e si sentono testimonianze e tesi e narrazioni, anche assai dialettiche, di esperienze personali di famiglie arcobaleno, di coppie problematiche, di nuove generazioni che non riescono a farsi ascoltare nel loro versante più privato. Servono ad allargare il classico «discorso» fuori dei limiti della scena, ma forse anche solo semplicemente a dar respiro a un racconto tanto denso e coinvolgente.

11vis1Geppetto e Geppetto-Paolo Li Volsi,Angelo Di Genio, Tindaro Granata-Foto Lanna

Granata è ben consapevole dei diritti, e soprattutto dei loro «rovesci», che costellano e condizionano scelte del genere, dai pregiudizi parrucconi rispetto alla stepchild adoption alla morale contraddittoria del cosiddetto «utero in affitto». Il testo, incisivo e in molti momenti capace di far sorridere (per tenerezza come per allegria), non sfugge nessuno di quegli interrogativi, e riesce a dare spessore e rispetto ad ogni problema. Perché oltre ai crudi contenuti, Granata dispiega una notevole capacità drammaturgica, in grado di tenere legate e conseguenti sensazioni e reazioni di tutti. Comprese quelle della madre di uno di loro che nella profonda Sicilia (luogo di cui l’autore è originario e quindi ben a conoscenza) fatica a tenere dietro a quei progetti «atipici» di paternità, nonostante l’amore sconfinato che al suo cocco la incatena. Nella costruzione dei dialoghi tutto risulta esplicito pur rimanendo «delicato», si parla di problemi maledettamente seri ma con una «leggerezza» cui non si può resistere dal farsi coinvolgere, come è evidente anche nelle reazioni di un pubblico composito.

Nello spazio di un’ora e mezzo filata, le vicenda di Tony e Luca non si ferma alla gioia raggiunta di avere un figlio. Nel racconto degli anni successivi, quando il bambino sarà cresciuto e uno dei papà sarà stato portato via da una malattia, con la stessa agilità si evidenziano pennellate di vita interessanti, la più cospicua delle quali è ovviamente quella che riguarda la consapevolezza progressiva del ragazzo Matteo di essere il nucleo di una situazione atipica, attorno alla quale i pregiudizi resistono alla liberalizzazione dei comportamenti, e la «normalità» mantiene dosi di veleno e di nevrosi con le quali pure bisogna misurarsi. Forse perché compressa nei tempi, o forse perché è obiettivamente difficile prefigurarsi cosa accadrà, questa seconda parte può risultare meno «godibile» della prima, anche se non diminuiscono nel testo la grazia e la leggerezza ottimista che l’hanno ispirato.

Attorno a un tavolone, di cui cartelli didascalici e quasi «brechtiani» ci indicano la funzione nei diversi momenti, prima sono i due innamorati a tenere il banco, poi, dalle loro spalle, emergono tante altre presenze, dalla madre di cui si è detto, alla maestra piuttosto rigida, all’amica che pure lei ha allevato una figlia senza che ci fosse un padre, fino al giovane Matteo che entra fatalmente in conflitto con i suoi coetanei, e però riesce ad avere un ultimo confronto chiarificatore con il papà, che già si allontana sul letto di morte. Resta nello spettatore l’impressione, forte, di aver visto rappresentato quello che non solo è un diritto civile, osservato da tutte le angolature, ma di aver partecipato attraverso la rappresentazione scenica, a qualcosa che in questi mesi ha attraversato il paese, e costretto tutti, se non a prendere una posizione, a farsi carico di un problema sostanziale. Con tutta la levità, e i complessi risvolti, che erano necessari. E a teatro, di questi tempi, non è una sensazione che si prova facilmente.