Insieme a Harold Bloom, scomparso l’ottobre scorso, George Steiner è tra i «lettori ideali» della tradizione dell’Occidente, quel tipo di lettore il cui intento è disporsi come un rispettoso interprete delle opere letterarie, preferibilmente già iscritte nel canone. Quel genere di lettore che i grandi capolavori, tutti insieme, reclamerebbero per sé. Tra le peculiarità del pensiero di Steiner, c’è forse la sua capacità di concepire le tradizioni nazionali come un insieme, proprio in anni, quelli del dopoguerra, in cui le aspirazioni a comparare letterature e culture dei paesi europei erano poco meno di un progetto politico e ideologico.

LA SUA FORMAZIONE di poliglotta, e la sua biografia – era nato a Parigi nel 1929 da genitori ebrei viennesi – lo portarono a padroneggiare sia il francese, che l’inglese, il tedesco e l’italiano, ciò che presumibilmente incoraggiò, in lui, la difesa della traduzione letteraria, un esercizio che considerava il vettore artistico ed ermeneutico in grado, per eccellenza, di garantire la trasmissione del patrimonio culturale: sempre che il traduttore fosse in grado di realizzare quell’attento equilibro di fedeltà all’originale e «incorporazione» personale che Steiner ebbe modo di illustrare in Dopo Babele.
Sua anche le lettura di quella parzialità del giudizio, che ha posto in primo piano lo sforzo trascendentale degli artisti alla ricerca del sacro: «la maggior parte della grande arte esige la fede», ha scritto in Tolstoj o Dostoevskij. Se in qualche modo la compresenza di queste attitudini permette di avvicinare George Steiner a Auerbach e a Curtius, dei quali in qualche modo eredita (più di Bloom) la missione sovranazionale, alla sua pratica critica si aggiunge l’innovazione di alcuni problemi intrinsechi agli studi letterari, e fra questi la centralità assegnata al mito nel nostro contesto culturale. Su questi presupposti, Steiner ha anticipato molte indagini sulla permanenza dell’arte classica nei secoli fino ad oggi, ad esempio in Morte della tragedia e Le Antigoni.

PROPRIO LO STUDIO della tragedia può dirsi emblematico del suo schema interpretativo, che comporta una visione pessimista del progresso interno al contesto della cultura, attraverso il tempo.
Steiner assegna stretti limiti cronologici alla forma tragica, che partendo dall’antichità si arresterebbe rovinosamente alle soglie dei tempi moderni, quando l’uomo occidentale si dimostrerebbe, a dire di Steiner – incapace di articolare una visione della vita fondata sulla fragilità della condizione umana, e di mettere in parola la tensione tra il grido e il silenzio che nutre l’espressione tragica. A partire dalla modernità, dunque, questa vena tragica giungerebbe «indistinta» all’ascolto dei contemporanei.
Se Steiner ritrova «alternative» alla tragedia in Madre coraggio di Brecht e perfino in complessi rituali della Cina comunista, questi non sono se non casi isolati, a fronte del prevalere delle «metafisiche» del cristianesimo e del marxismo, che propongono una visione «antitragica»: mitologie «ottimiste», che non ammettono il permanere di una tragedia senza riscatto.

QUESTA CONCEZIONE delle estensioni e dei limiti del canone lo avvicina a Harold Bloom in un sostanziale rispetto delle norme di un giudizio estetico individualistico, che risale al primo Novecento. Giudicare la qualità dell’opera è operazione decisiva del critico, il cui scopo è discernere tra il buono e l’ottimo, non tra il buono e il cattivo, come fa il recensore o il critico militante (attività cui pure Steiner non si è sottratto sulle pagine di famosi quotidiani). Tuttavia, Steiner si allontana da Bloom – più a proprio agio nell’agone relativo ai metodi critici alla moda – non solo per una certa resistenza alla scena mediatica, ma anche perché la sua attitudine versatile ha fatto della scrittura critica solo un aspetto della sua attività intellettuale. Nonostante si sia prodotto in alcuni anche apprezzati tentativi di scrittura di finzione, tra racconti, romanzi e poesie, l’idea di «critica» resta nel lascito di Steiner come il suo principale contributo: più attuale, forse, dei suoi stessi precipitati in giudizio critico, di volta in volta applicato ai diversi testi analizzati. Se la lettura e in genere qualsivoglia forma di ricezione si risolvono in un rapporto privilegiato con l’opera d’arte, la quale a sua volta trasforma chi ne fruisce, la scrittura critica va concepita come un’attività al contempo «meditativa» e «ricreatrice». La scrittura di Steiner, anche quando di secondo grado, ovvero rivolta ad altri testi, ne è l’espressione concreta, capace com’è di rendere accessibili i classici all’interno di un orizzonte interpretativo del tutto personale. Risultato ottenuto soprattutto eliminando la mediazione della teoria e della discussione critica di altri interpreti contemporanei.

SE BLOOM ha militato per una difesa ideologica del canone, Steiner ha insistito soprattutto sul progetto didattico che investe il rapporto con i libri e con l’arte. In Vere presenze si scaglia contro l’abuso del commento e di letture forzosamente mediate nell’insegnamento dei testi letterari. Come Bloom, Steiner era un uomo che amava la polemica letteraria: con il critico americano condivideva la fedeltà alla «vecchia critica», capace di resistere alle seduzioni via via rappresentate dalla nascita dello strutturalismo, poi dalle speculazioni sul suo tramonto, e intanto dalle analisi semiotiche, e prima di tutto dalla critica di impronta sociologica.
Nella prospettiva di una lettura critica mirata a stabilire un dialogo legittimo con i testi del passato e con i loro autori, Steiner – pur nella piena consapevolezza delle scuole che via via si succedevano – ha privilegiato sempre un confronto personale e poco mediato dalle idee di altri teorici della letteratura, a volte facendosi influenzare dalle proprie idiosincrasie, altre volte oltrepassandole in nome di una più importante stima intellettuale: quella per Lukács, per esempio, del quale gli era avversa la fede marxista.