Reinventare un lessico partendo dall’originale già di per sé inventato è il compito forse più temerario, più divertente e più arbitrario che possa toccare in sorta a un traduttore; perché lo scarto tra il sovrapporsi e il sostituirsi alla voce autoriale si fa decisamente più ampio, la sfida più ardua, il rischio più temibile.

La favola di George Saunders titolata Volpe 8 (Feltrinelli, pp. 52, € 10,00) resta, nella versione italiana, ascrivibile all’autore americano quanto a idee e struttura, ma interamente di Cristiana Mennella quanto a azzardi lessicali: che non si limitano a mimare le storpiature grammaticali e fonetiche messe in bocca da Saunders alla sua volpe conquistata al linguaggio degli umani, ma le reinventa.

E sebbene qui non si tratti, come per esempio in Joyce, di addentrarsi in una foresta di etimologie, simboli, suoni mai sentiti, la responsabilità che la traduttrice si è assunta, e cui ha fatto fronte con la consueta brillantezza, deve essere stata comunque gravosa, anche perché (auspicabilmente) in soggezione della speciale intelligenza dell’autore.

«Deer Reeder: – esordisce Saunders – First may I say, sorry for any werds I spel rong. Because I am a fox! So don’t rite or spel perfect. But here is how I lerned to rite and spel as gud as I do!». E Mennella: «Caro L’ettore, prima vorrei dire, scusa perle parole che scrivo male. Perché sono una volpe! Cuindi non scrivo proprio perfetto. Maecco comò imparato ha parlare e scrivere bene così!»

Protagonista, una timida volpe di buoni sentimenti, che essendo stata sfrattata insieme al suo gruppo dal territorio ora destinato a un centro commerciale, si lancia alla scoperta di gusti e ambizioni degli «Humani». Li trova e… li commenta.