Negli ultimi anni in alcuni scritti George Lewis ha richiamato l’attenzione sullo scarto esistente fra il mondo dell’arte contemporanea – nel quale, per effetto per esempio dell’azione di un critico e curatore come il nigeriano Okwui Enwezor, si è assistito ad una rappresentazione progressivamente più equilibrata della produzione artistica: non solo bianca, europea e nordamericana, ma anche di altri continenti, dell’Africa e della diaspora africana – e quello della musica contemporanea di matrice accademica, che continua a mostrare una schiacciante egemonia bianca (e maschile).

Un interessante segnale nel senso della «decolonizzazione» di questo ambito auspicata da Lewis viene dalla 65esima edizione della Biennale Musica di Venezia (17-26 settembre), per la prima volta diretta da una donna, Lucia Ronchetti, e intitolata Choruses – Drammaturgie Vocali: domenica 19 (ore 10.00, Teatro alle Tese) verrà presentato in prima assoluta Amo, un lavoro creato da George Lewis su commissione della Biennale, una partitura vocale composta per i Neue Vocalsolisten complementata da elettronica live.

Classe 1952, Lewis nel ’71 è entrato nella AACM, l’«Associazione per la promozione dei musicisti creativi», che, fondata nel ’65 sotto la guida del pianista Muhal Richard Abrams, ha riunito l’avanguardia afroamericana di Chicago ed espresso personalità cruciali per gli sviluppi della ricerca post-free jazz come Roscoe Mitchell (Art Ensemble of Chicago), Anthony Braxton, Leo Smith, Henry Threadgill. Enfant prodige del trombone nell’ambito dell’improvvisazione radicale, Lewis più avanti ha privilegiato l’interesse per l’elettronica e la composizione. A lui si deve inoltre un fondamentale volume sull’esperienza della AACM, A Power Stronger Than Itself, pubblicato nel 2007.

Da piccolo Anton Wilhelm Amo (1703-1759) viene deportato come schiavo dall’attuale Ghana in Germania; donato al duca Augusto Guglielmo di Brunswick-Lüneburg, viene fatto studiare, e, primo africano ammesso a frequentare un’università in Europa, diventa docente di filosofia all’università di Wittenberg. «Nel 2020-21, mentre trascorrevo un periodo di ricerca a Berlino al Wissenschaftskolleg – ci racconta Lewis – ho visitato la Savvy Contemporary, una galleria dove è in corso di creazione un centro dedicato ad Amo. Amo è stato probabilmente il primo filosofo di origine africana dopo Agostino ad essere conosciuto in Europa e ad esercitarvi una influenza nella sua epoca. Non sapevo nulla di Amo: è una delle importanti ma scarsamente documentate presenze afrodiasporiche nella storia intellettuale europea.

Su quali aspetti dell’opera di Amo si focalizza in particolare il suo lavoro?
Ho ricavato il libretto dalla sua Disputatio philosophica del 1734. Il testo è cantato in tedesco, inglese, latino, olandese e twi, una lingua africana, che rappresenta la comunità di nascita di Amo nell’attuale Ghana. Amo parla di Dio non come singola entità, ma in relazione ad altre entità spirituali, il che mi fa pensare a un apporto di principi filosofici africani nella discussione filosofica occidentale; d’altra parte Amo vede Dio e questi spiriti come potenti, ma in definitiva limitati per la loro mancanza di un corpo vivente e organico.

Lei ha cominciato con l’improvvisazione: che cosa la ha spinta a orientare le sue energie verso l’elettronica?
Intorno al ’77, in una visita al Mills College a Oakland, in California, ho incontrato il lavoro della League of Automatic Music Composers, che facevano musica con microcomputer. I compositori avevano tutti creato i loro programmi per suonare musica e interagire con gli altri computer: era come improvvisazione di gruppo, ma erano i computer a creare la musica. Trovai la cosa affascinante e decisi di tentare qualcosa del genere. Quarant’anni dopo, cose come Rainbow Family che ho creato all’Ircam nel 1984, e Voyager, sono considerate dei lavori pionieristici in questo campo. Amo, come il grosso del mio lavoro a partire da una decina d’anni fa, non fa parte di questo tipo di produzione in cui c’è l’improvvisazione. D’altro canto, i cinque vocalist sono strettamente microfonati, e i loro suoni sono inviati ad una piattaforma software che uso come un programma compositivo per creare suoni e traiettorie. Si può cambiare il suono dei cantanti, e si può fare in modo che i suoni si muovano nella sala seguendo varie traiettorie.

Può spiegare il suo punto di vista sull’esigenza di «decolonizzare» l’ambito della musica scritta di ricerca?
Trovo che la marcata assenza dai palchi, dai media e dalla storiografia della musica classica della stessa pluralità etnica, razziale e di genere che si trova invece nell’arte contemporanea possa tradursi nel declino del campo della nuova musica: i giovani ascoltatori finiranno per accorgersi della discrepanza fra quello che vedono per strada e i compositori e le prospettive che incontrano nelle sale da concerto. I curatori musicali e le istituzioni dovrebbero cominciare a porsi nuove domande su come potrebbe suonare un criterio curatoriale decolonizzato. Chi sarà l’Okwui Enwezor della musica contemporanea?

Lei si richiama al concetto di «creolité», sviluppato alla fine degli anni ottanta da alcuni intellettuali delle Antille francesi a partire dall’esigenza di andare oltre il concetto di «négritude»: in che senso può applicarsi e venire utile rispetto al campo della musica contemporanea?
Un mio intervento nel 2017 al festival di Donaueschingen introduceva l’idea di una musica classica «creolizzata», che cessa di vedere la propria identità come una articolazione di una diaspora europea bianca, a favore di un cambiamento di consapevolezza che considera nuove popolazioni e riconosce nuove storie: una identità-mosaico. Come questi teorici dei Caraibi hanno visto, il mondo è già in una situazione di creolità e questo include anche la musica classica, non solo oggi ma anche storicamente. Per esempio, il titolo originale della Sonata a Kreutzer di Beethoven era Sonata Mulattica, scritta per il violinista afro-polacco-britannico George Bridgetower.

Può avere senso dire che la AACM è stato un movimento all’insegna della «creolité», anche se ante litteram?
Si può certamente dire che l’AACM è stata parte di una visione globale di una musica sperimentale creolizzata.

Lei ha suonato a Donaueschingen nel ’76, con Anthony Braxton, ma in una delle serate riservate al «jazz»: le rassegne di musica «contemporanea» dovrebbero contemplare invece nei loro programmi, a pieno titolo, le forme di improvvisazione/composizione radicale che hanno radici nell’esperienza musicale afroamericana?
Penso che in una certa misura lo stiano già facendo. La prima e unica volta che la mia musica è stata presente alla Biennale Musica di Venezia prima di adesso è stata con il trio di Muhal Richard Abrams, Roscoe Mitchell e me, nel 2003 (nell’edizione della Biennale musica diretta da Uri Caine, ndr). Ma è molto più radicale e grave l’assenza nei festival di musica contemporanea di compositori di musica scritta della diaspora africana: e non solo nei festival, ma anche nelle storie della musica, nei curricula accademici, nelle facoltà, nelle presentazioni alla radio e alla televisione, nelle giurie, nei dibattiti, eccetera. Le scelte curatoriali guardano ad un livello internazionale, quindi non c’è ragione per la mancanza di quel tipo di diversità. Braxton non è mai presentato in Europa se non in quanto improvvisatore, malgrado la grande varietà della sua produzione: musica da camera, corale, opera. Un musicista di uno dei grandi ensemble tedeschi di musica contemporanea mi diceva che ha problemi a presentare dei progetti sulla musica di Braxton, perché i curatori la incasellano come jazz, che vien ritenuto al di fuori del genere di loro competenza. Ma adesso c’è internet, e tutti sanno chi è Braxton, e se non lo sanno, forse sono le persone sbagliate per prendere delle decisioni in ambito culturale.