C’è un uomo in fuga, è un clandestino tedesco che cerca di salvarsi dai nazisti alle porte di Parigi. La sua destinazione è Marsiglia tra altri come lui, rifugiati in attesa di un visto, di una nave, di un passaggio verso la salvezza, verso un futuro. Siamo in Francia durante l’occupazione eppure quel porto affollato di esistenze invisibili, sospese nel nulla, somiglia al presente, gli abiti, le automobili, quasi che il tempo avesse subito una strana contrazione, un brusco sobbalzo fra ieri e oggi uniti dallo stesso sentimento instabile di paura, di perdita.

Georg (Franz Rogowski) ha trovato un manoscritto, l’autore è uno scrittore famoso che si è suicidato nella stanza d’albergo lasciando lettere alla moglie e la promessa di un visto all’ambasciata messicana, la decisione di prendere la sua identità è quasi obbligata, prima di Georg lo stabilisce il caso, tutti sono convinti che lui sia l’altro, e poi un nome famoso è un lusso, un privilegio.
L’amico di Georg è morto, laddove gli aveva detto di andare ci sono una donna e un ragazzino, clandestini pure loro, il bimbo si affeziona, gioca con lui, potrebbe essere l’inizio di una nuova vita, una famiglia essere padre? Ma basta questo a fermare la storia, a costruire un rifugio? Il medico che cura il bimbo quando si ammala aspetta anche lui di partire. Però rimanda quasi non riuscisse a muoversi, si è innamorato di una donna che cerca con ostinazione il marito scomparso.

È FORSE lei, Maria (Paula Beer), il cui riflesso balena davanti agli occhi di Georg in ogni angolo di strada, in quel caffè nel quale solo lui sembra notarne la presenza:è bella, sul volto ha la stessa disperazione di tutti, sembra cercare qualcosa o qualcuno ma chi?

Transit – in sala come La donna dello scrittore – è il nuovo film del regista tedesco Christian Petzold, uno dei narratori migliori del cinema contemporaneo che nei suoi film riesce a mettere in scena la realtà, la Storia e l’attualità tra le sfumature del noir, del melodramma, in una sospensione che ne rende più netta l’evidenza. Sarà la «lezione» del suo maestro e con lui autore di molte sceneggiature dei suoi film, Harun Farocki, a cui Petzold deve la scoperta del libro di Anna Seghers, Transiti, all’origine del film che gli ha trasmesso il disorientamento della rappresentazione come cifra politica e poetica per interrogare ogni immagine. Perché la perdita di riferimenti permette di costruirne di nuovi lasciando da parte le semplificazioni e le risposte già pronte.
Passato e presente: la donna e il bimbo scompaiono, nel loro piccolo appartamento Georg trova venti persone, anche loro migranti in attesa, sono quelli di oggi, erano quelli di ieri, la Storia è un flusso, un movimento di analogie.

Nel gioco di specchi ognuno ha una doppia identità (una doppia vita?), Georg diventa lui stesso lo scrittore, colui che determina le vite degli altri, i loro destini insieme al suo, provando finali possibili, mondi possibili, dove anche la beffa può essere una variazione.

E LÌ IL NOSTRO tempo affiora prepotente, ha i contorni di un noir classico, la stessa inquietudine, siamo dentro la storia «in diretta», senza la protezione dei costumi, col respiro di ciò che viviamo e le incognite dell’istante. Ognuno di quei personaggi non è in fondo che un fantasma, il segno universale di un’esperienza umana che si ripete, l’amore, la resistenza, la perdita, la lotta, la vita. Non è questo anche il cinema?