Quanto sia meritevole il lavoro svolto da «Le stanze del vetro», l’iniziativa della Fondazione Giorgio Cini insieme alla Pentagram Stiftung per la valorizzazione dell’arte vetraria, è qualcosa che si misura a ogni mostra. Anche in quest’ultima, La vetreria M.V.M. Cappellin e il giovane Carlo Scarpa, 1925-1931, ancora visitabile per pochi giorni, si nota che l’importanza del progetto non risiede solo nell’elevata qualità dei manufatti selezionati, ma nell’esatta ricognizione che ci restituisce cataloghi ragionati indispensabili per la conoscenza delle arti del vetro.
La storia che questa volta si racconta nell’isola di San Giorgio è quella di uno scaltro imprenditore, Giacomo Cappellin, ma non così svelto da evitare in poco più di un lustro il fallimento della sua azienda vetraria: «Maestri Vetrai Muranesi Cappellin e C. Bapi» – com’era soprannominato – fondò la sua impresa nel 1925 dopo la rottura con il suo primo socio, Paolo Venini, con il quale nel 1921 diede vita al rinnovamento dell’arte vetraria muranese rilevando la storica fornace di Andrea Rioda e reclutando Vittorio Zecchin, tra i più famosi artisti veneziani dell’epoca, il quale continuerà a collaborare anche nella nuova impresa di Cappellin, ma per un solo anno.

NEL 1926, infatti, esce di scena dopo avere esposto con successo i suoi vetri in diverse mostre d’arte (Ca’ Pesaro, Biennale), lasciando il posto già per il Salon d’Automne di Parigi, a Carlo Scarpa. Sono a lui riconducibili, nella boutique de verres allestita per l’importante appuntamento, una serie di vasi con base troncoconica le cui «audaci geometrie» (Ponti) risaltano, com’è visibile all’ingresso della mostra, dall’accostamento del fiore in vetro dal lungo gambo che infilato dentro uno di essi diventerà il segno di riconoscimento della manifattura. La presenza del giovane Scarpa in fornace ha inizio da quando Cappellin lo incarica per il restauro di Palazzo da Mula, sede scelta a Murano per l’azienda.

DA ALLORA il prolifico legame dell’architetto veneziano con il vetro non s’interromperà mai più. Lo mise bene in evidenza, nel 2012, in occasione dell’esposizione Carlo Scarpa, Venini 1932-1947, Marino Barovier, curatore con Carla Sonego dell’attuale mostra. Solo adesso, però, si può dire completata la lunga e accurata ricerca intorno un ambito dell’opera scarpiana affatto marginale, colmando finalmente una lacuna storiografica viva da tempo. «La sistemazione di Palazzo da Mula – scrive Sonego in catalogo (Skira) – se dal un lato permise a Scarpa di sperimentare la complessità di un cantiere così articolato, dall’altro lo introdusse nel mondo del vetro, che segnò in maniera significativa gli anni della sua formazione». Il giovane Scarpa, in qualità di «architetto integrale», restaura, progetta e disegna seguendo ciò che gli insegnò Guido Cirilli, suo insegnante all’Accademia di Belle Arti: «esattezza, lavorare con chiarezza, non pasticciare» sono i suoi principi-guida. Nondimeno sarà Cappellin a guidarlo verso alcune soluzioni formali con la stessa determinazione con la quale sprona i suoi maestri vetrai. A loro ripete: «El tempo xe mio, prova», impaziente di raggiungere il risultato atteso nonostante le difficoltà nell’esecuzione. È in questo clima di novità, attese e “prove” che si sperimentano tecniche nuove accanto al recupero di quelle tradizionali. Lo rileva bene la mostra che raduna gli oggetti secondo il tipo di lavorazione.

SI INIZIA con i vetri trasparenti, dei vasi sferici di cui si è fatto prima cenno, dalle linee semplici e la superficie iridata, o decorata con pasta vitrea in fasce a zig-zag, a fili orizzontali o «a palmetta». Dopo i trasparenti si prosegue con i vetri bianchi opachi dei «Lattimi»: forme semplici, «classicheggianti», con varietà di finiture quasi infinite con l’inserimento della pasta vitrea colorata per la bocca, i piedi o le prese laterali del vaso, o ancora con l’applicazione in superficie della foglia d’oro. Scarpa, sia nell’introdurre la policromia nei soffiati sia nel disegno degli oggetti in vetro lattimo, dimostra com’è sempre possibile innovare pur alla presenza di un sicuro catalogo di forme e di consuetudini. Lo dimostra con le differenti soluzioni studiate per un servizio da tè (1929) oscillanti tra Decò e Bauhaus e destinato per le vetrine Deutsche Werkstätten di Monaco. Tuttavia sarà con la pasta vitrea che l’architetto veneziano raggiunge la sintesi più convincente tra materia, colore e forma nella serie degli «Incamiciati», delle «Murrine» e delle «Fasce verticali«: modelli di vasi distinti per la tecnica (strati sovrapposti di differenti colori) e decori astratti. A conclusione della mostra uno spettacolo di raffinata qualità e virtuosistica esecuzione sono i fiori, piante, frutti e animali in vetro, all’apice il monumentale centrotavola in vetro cristallo (1931), un trionfo dell’arte muranese del vetro.