A centocinquant’anni della morte (1874), la figura di Niccolò Tommaseo risulta alquanto sbiadita, nonostante le piazze, le vie e i monumenti, che gli furono dedicati in altra fase della sua fortuna pubblica. L’eclissi dalla memoria collettiva del Risorgimento e dei suoi protagonisti, la scomparsa del canonico Dizionario da lui curato insieme a Bernardo Bellini (1861), l’oblio toccato alla produzione in versi (e pure a Fede e bellezza, espulso ormai dalle antologie), hanno lasciato ben poco spazio all’inquieto e scontroso intellettuale, cui nemmeno l’origine dalmata saprebbe oggi dare importanza.

Eppure di Tommaseo, vissuto tra Sebenico, Padova, Venezia, Milano, Parigi e vari altri luoghi, e infine a Firenze, va richiamato il ruolo nella cultura dell’Ottocento e nella costruzione politica e letteraria dell’italianità. Il suo profilo molteplice comprende anche una produzione in latino, poco nota ma di qualità non comune. Comune era la pratica del latino dei poeti ottocenteschi, anche ben oltre Pascoli e Leone XIII, fino ai testi del latino fascista.

Tracciando nella Storia della cultura veneta il profilo pre-unitario di un Veneto dotto, lirico e pratico, Piero Treves notava (1986) che «far versi era non pur un’abitudine fra scolastica e di galateo, ma una necessità e un dovere», anche per i vantaggi che ne potevano derivare nei confronti dell’autorità austriaca. L’uso di comporre in latino era tenuto vivo al tempo anche dall’alto livello tecnico del seminario di Padova: e pazienza se i versi nascevano, le più volte, invita Minerva.

Differente il caso di Tommaseo. Diciassettenne, il giovane fu indirizzato a incontrare Giuseppe Barbieri (1774-1852), letterato bassanese e insegnante a Padova, e compose nel 1819 un poemetto di elogio del dotto e della villa di Torreglia dove questi viveva: con al centro una digressione «geologica» sulla formazione vulcanica dei colli Euganei. Come altre volte accade a Tommaseo per la sua vita errabonda, la generosa incuranza e il carattere spinoso, la vicenda editoriale è complicata.

Il poemetto fu rivisto dall’autore e pubblicato nel 1821 da Barbieri, con il titolo di Tauriliae descriptio, in una raccolta dedicata alle amenità locali. La stampa poi spiacque al giovane letterato, che polemizzò a stampa con Barbieri (1824), salvo poi più tardi, nelle Memorie poetiche, ricordarlo come «uomo di facile dicitura, di amorevoli modi e di molto pieghevole ingegno». La descriptio è stata oggetto di uno studio recente (Lucia Marchesi, Giulio Osto, Patrizia Paradisi, Cantiamo Torreglia, Proget 2017), e ora l’affianca la prima versione, frammentaria, recuperata a Stresa tra le carte di Rosmini, precoce ammiratore dell’ingegno poetico di Tommaseo.

I due poemetti sono riuniti ora in un volume disteso a evocare l’ambiente euganeo, ricco di memorie letterarie, dai luoghi petrarcheschi ai pellegrinaggi foscoliani e dannunziani: Claudia Baldin, Giulio Osto, Patrizia Paradisi in Tommaseo sui Colli Euganei Passeggiate letterarie a Torreglia e ad Arquà Petrarca (Proget Edizioni, pp. 156, euro 22,00). La combinazione di caritas loci, erudizione, cura filologica e promozione turistica è inusuale, ma piuttosto efficace.

Ci si imbatte così in spunti interessanti sopra il «mito» locale di Petrarca, elevato anche dall’alata parola di Carducci a poeta della nazione, poi variamente celebrato nei centenari nel luogo della sua sepoltura (bizzarre le vicende toccate ai resti ossei del poeta e ad altre sue «reliquie»). Nei due poemetti latini, dunque, Tommaseo diciassettenne esibisce una perizia tecnica davvero notevole, ben lumeggiata da Patrizia Paradisi, che già altri contributi ha dedicato al Tommaseo latino, secondo la lezione di Alfonso Traina.

Nella prima stesura, i versi son formati da tessere riprese o riadattate dai grandi testi antichi: nell’abilità del mosaico, ispirato soprattutto a Ovidio, si colgono, accanto alla seria formazione, «l’istinto e la sindrome del lessicografo». Ecco le Alpi imbiancate di nubi e neve: «…Ut horrent / candentes a fronte procul squalore nivali / nubiferae illae Alpes Italae confinia terrae!». Nel rifacimento, meglio si notano scelte autonome e creative: l’esito è lontano dalla monotonia e prevedibilità dei tanta poesia moderna in latino. Lo stile evita o riduce le facili morbidezze di Ovidio (fonte prediletta per i compositori in latino), a favore di un tono personale, segnato da talune durezze formali, forse modellate sulla poesia popolare, e da esibiti enjambements, forse sul modello dell’amato Orazio. Si notano espressioni nuove o rinnovate.

Così per lumina vidit, che Paradisi giustamente intende come italianismo per «vide la luce», e modifica, sulla scia di testi umanistici, un’espressione ovidiana; per munimina terrae, «difesa della terra (d’Italia)», variazione lessicale di una formula non rara nella poesia imperiale in esametri (e di un concetto topico); mentre arcana silentia, che viene dal latino umanistico, sembra anticipare sensibilità romantiche. Questa la topographia, con la decrizione delle colline vulcaniche ora rigogliose di verzura: «Haud procul Euganea locus est pulcherrimus urbe: / pontus erat, sed iam, flammis plodentibus, undae / cessere: exsiliunt colles, sinuntur in arcum, / omniferique virent».

Nel 1845, tornato su Colli, Tommaseo dedicò uno scritto ad Arquà, qui ripresa e commentata: segno di un rapporto significativo, per un uomo così inquieto. Nelle sue prose e nei versi, oltre alla dottrina e all’intensità con cui affronta i temi, si riconoscono i modi che ne fecero un letterato remoto dal conformismo e dalla maniera, atto quindi, come pare dicesse Vincenzo Monti, a causar dolore agli altrui tommasei. Fu particolare anche nei versi latini: non piacquero ai «mercanti protestanti» del concorso di Amsterdam i versi filosofeggianti De rerum concordia che il poeta inviò nel 1869. I carmi di Giovanni Pascoli, pochi anni dopo, ebbero più fortuna.