Nell’arroganza videoarrembante della politica qualcuno si sarà chiesto perché Gentiloni non sia ancora mai andato a sedersi sulle candide poltrone di Porta a Porta? Mentre la sua effigie compare non di rado sull’eidophor di scena, lui da Vespa ancora non si è recato; l’ultima volta che l’ha fatto era ministro di Renzi. In Rai non l’hanno visto nemmeno dalle parti di In mezz’ora, né da quelle dell’Arena. Forse la domenica il premier si riposa.

Nell’era della mediatizzazione della politica Gentiloni, oramai al governo da 7 mesi, è comparso in televisione in programmi d’informazione o di infotainment solo in una dimenticata puntata di fine gennaio di Che tempo che fa (ahi, Fazio!).

Esattamente un anno fa, però, sembrava un’altra epoca storica. Il premier Renzi nella prima metà del 2016 aveva trovato il modo di occupare ripetutamente i palinsesti delle tv pubbliche e private, non scontentando quasi nessuno se non gli irriducibili ‘gufi’ di Ballarò e Piazza Pulita: Vespa, Annunziata, Fazio, D’Urso, Giletti, ospite da ognuno di loro, da qualcuno più volte.

Il low profile di Gentiloni trova conferma nei telegiornali della Rai dove egli e il suo governo restano molto al di sotto delle performance cui ci aveva abituato il predecessore: il premier da gennaio è sotto la media del 15% del tempo di parola (dati Agcom) nei tg pubblici, Renzi viaggiava sul 20% con punte molto alte (24% ottobre e aprile 2016, 33,7% dicembre 2015).

Alla nevrosi mediatica ossessivo-compulsiva di quest’ultimo, il nuovo premier sembra contrapporre tutt’altro approccio. Se ciò accada per virtù o per necessità ci interessa meno, ci interessa di più mettere a fuoco un paio di altre cose.

Primo. Di fronte alla questione tv la sinistra ha con i suoi leader molto spesso rinunciato ad aggredire la dimensione politico-democratica dell’anomalia italiana, preferendo occuparsi di tv solo per rivolgersi alla gente, saltando qualsiasi corpo intermedio giornalistico o organizzativo. Un direttismo dai risultati non sempre entusiasmanti: lo praticarono D’Alema tra risotti e comparse da Morandi, Fassino con la tata dalla De Filippi, Bertinotti per anni superstar da Vespa. Infine Renzi che, al prodotto piuttosto artigianale dei predecessori, in fatto di direttismo, ha sostituito un prodotto industriale di massa.

Secondo. Media e consenso non sono in rapporto univoco e proporzionale. Le ultime rilevazioni ci dicono ad esempio che il premier, così dimesso e poco appariscente in video e sui social, gode però di un alto tasso di popolarità e di fiducia. Più di tutti gli altri politici. Pur con tutti i distinguo, ci pare che questo ci dica, ancora una volta dopo il 4 dicembre, che l’utilizzo dei media, e della tv, ai fini del consenso sia operazione quanto mai delicata, che a volte riesce e a volte no. C’entrano il contesto in cui avviene, le capacità degli attori, l’oggetto da comunicare, l’atteggiamento del cittadino-pubblico. Non poche volte l’uso maldestro del video ha realizzato l’equazione (rubo l’espressione a Morcellini e Prospero): schermi pieni-urne vuote. Caso di scuola, oltre al 4 dicembre di Renzi, Bertinotti nelle elezioni del 2008.

L’altro giorno Claudio Velardi si è rivolto a Renzi dal suo blog. L’ex spin doctor di D’Alema (ultrarenziano) gli ha detto di ascoltare da lui «sempre le stesse parole, espressioni, calembour», di infastidirsi «per quell’insopportabile intercalare del ‘ragazzi’», «per il sindaco di turno da blandire» e le tante altre «banalità» che ripete; gli suggerisce di mettersi «a studiare» piuttosto che agitarsi «freneticamente pensando solo a giornali e compagni di partito», e di smetterla di tornare «compulsivamente sulle cose fatte dal suo governo»; lo invita, infine, a «tacere» per parlare «solo quando ha da dire cose nuove, e di peso». Forse come fa l’amico Gentiloni?