Sono le 11:36 del 14 agosto 2018 quando il pilone di sostegno 9 collassa insieme a una sezione di 250 metri del Ponte Morandi, che attraversa il torrente Polcevera e i quartieri genovesi di Sampierdarena e Cornigliano, uccidendo 43 persone. Quel giorno Genova viene ferita a morte e – come intuisce Sara Benedetti attraverso lo sguardo del suo Tedesco – non è la prima volta. Violata dall’alluvione del 2014 e dall’edificazione selvaggia, colpita al cuore nel luglio del 2001 durante le giornate del G8, lacerata tanto tempo prima dai bombardamenti britannici e dalle truppe tedesche. Ma Genova ha il mare, vive del contatto magico con un elemento che eternamente si rigenera e si rinnova e, in qualche modo, sembra trarne la forza per fare lo stesso.

COME LA CITTÀ in cui si muovono, i personaggi di Sulla cattiva strada (Nottetempo, pp. 320, euro 17) vivono, muoiono e risorgono tante volte, ma non sempre. Tedesco, Pagano, Morango, Lord Jim, Ethan, Jamila sono «vicolari», «caruggiai» la cui esistenza comincia a sdoppiarsi fin dall’adolescenza: ciascuno di loro molto presto diventa «uno con la vita dentro e fuori». Fuori, nei vicoli ma mai oltre il loro confine. Dentro, nel carcere di «Marasci».
Possono incontrare i turisti occasionali dei vicoli: gli studenti universitari che parlano con strani accenti e si portano dietro storie famigliari e una quotidianità radicalmente distanti. «Figli di papà» attratti dalle atmosfere dei locali della Maddalena, aficionados del negozio di De André. Gli autoctoni dei vicoli sanno affascinarli, farli interessare a sé per un momento, esibirsi di fronte a loro nel proprio «safari», innamorarsene magari, fugacemente. Sanno bene, però, che nessuno di loro vuole davvero «una vita a Genova», né durerebbe nei vicoli, né li porterà con sé.
Ugualmente la storia entra ed esce dai caruggi, ma è come se là noi si posasse mai. Ecco perché, anche se il 20 luglio del 2001 quel ragazzino «inchiodato a terra dal destino» e incontrato qualche volta agli Asinelli avrebbe forse potuto essere Ethan o Tedesco a vent’anni, già dal lunedì si avverte che gli «strani giorni» sono finiti e Genova è tornata ad appartenere ai caruggiai. Così almeno credono loro.

ALCUNI PROFESSANO con orgoglio una fede politica eterodossa, da autodidatti, fatta di letture rubate, ricordi romanzati che sono «cronache di gesta eroiche e metropolitane» e un senso di giustizia educato alla realtà di vite irregolari, marginali e spesso spietate. Per Lord Jim gli arabi non sono solo una fastidiosa concorrenza nelle piazze dello spaccio, ma quelli a cui i francesi sono andati a «rompere le palle in Africa»; calarsi dalla finestra del collegio è una vendetta per aver dormito ogni notte nel retro di un alimentari; una rapina un risarcimento per il furto che è la proprietà privata. Ma Jim è un outsider fra i reietti e i vicoli – che «ti vengono a cercare» – ingoiano anche lui.
La Città Vecchia è ancora piena di quei «figli, vittime di questo mondo» – ci racconta Sara Benedetti – anche se oggi molti hanno altre storie, altre origini, parlano lingue straniere. La droga – venduta e consumata fino a consumare – la «vita», i colpi, le fughe, gli amori tossici, i pugni in tasca e quelli sferrati, i cani da combattimento, i suicidi in cella sono ancora la quotidianità di chi nei vicoli trova rifugio e una strana forma di calore e umanità, ma al contempo un carcere poco più grande.

Sara Benedetti, che a Genova non è cresciuta ma se n’è innamorata come una matricola di un caruggiaio, che per mesi ha costruito relazioni dentro la casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino, narra con mestiere – benché a volte cedendo a soluzioni prevedibili – ma soprattutto con trasporto autentico verso le tante vite «chiuse lì dentro» e altrove. Un inizio che, se non sempre riesce a graffiare, certamente comunica amore.