Protagoniste della raccolta di racconti d’esordio della nigeriana Chinelo Okparanta La felicità è come l’acqua (Racconti Edizioni, pp. 212, euro 17, traduzione di Federica Gavioli, illustrazioni di Alberto Fiocco) sono donne sue connazionali che vivono in patria o si sono trasferite negli Stati Uniti, studentesse e insegnanti, madri e figlie, mogli e amanti, che cercano spazi di sopravvivenza e realizzazione in società patriarcali o apparentemente progressiste, ma pur sempre costrittive delle libertà e aspirazioni individuali.

LEI STESSA TESTIMONE di geova nata in Nigeria e immigrata negli Usa, Okparanta tratteggia con prosa lucida ed elegante, mostrando grande capacità di analisi, una carrellata di «tipi femminili» alle prese con realtà e decisioni difficili, sempre contese tra amore e religione, desiderio (nei riguardi delle proprie simili, ritenuto dunque oltraggioso e passibile di pena) e senso del dovere e del peccato, restituendo nei dieci racconti altrettanti, e più, ritratti sorprendenti di donne a loro modo controcorrente, che rifiutano le convenzioni e costrizioni sociali ma non per questo realizzano mai appieno la loro felicità, poiché come una di loro dirà «La felicità è come l’acqua. Cerchiamo di afferrarla ma ci scivola sempre tra le dita». Le prime pagine della raccolta ci immergono in un’ambientazione distintamente africana e urbana, fatta di case dove le cucine sanno «di stufato al pomodoro, quello liquido, con l’aggiunta di peperoni e spezie», con giardini sul retro dove crescono floridi aranci e guaiave ed esplodono i fiori d’ibisco, e dove «fuori, lungo la strada principale» ci sono «negozietti in cui i proprietari vendono biscotti Nabisco e succhi Ribena, pomodori in barattolo e sardine in scatola. La sera, gli ambulanti allestiscono dei banchi improvvisati negli spazi tra un negozio e l’altro. Lì vendono pannocchie abbrustolite, pere locali e banane arrostite cosparse di olio di palma, pepe e sale».

IN QUESTI QUARTIERI della media borghesia di Port Harcourt, le ragazze contraggono matrimoni per compiacere i loro genitori e desiderano sopra ogni cosa la maternità, ricorrendo alle guaritrici tradizionali se questa tarda ad arrivare, per non essere stigmatizzate come «botti vuote». Ma più di tutto ambiscono alla «chiarezza» a tutti i costi, mettendo a repentaglio la loro pelle con candeggina e creme schiarenti pur di assomigliare ai modelli feticci imposti da riviste patinate come Elle, Cosmopolitan e Glamour.
Per molte di queste donne l’America è una specie di utopia, un’astrazione, un altrove idealizzato dove si può ottenere una solida istruzione e niente scioperi, il luogo in cui cercare risposte e in cui si può trovare sempre quella giusta. Tutto in America è migliore per definizione. Nel racconto omonimo un’insegnante sogna la neve e i grandi magazzini, le macchine, gli edifici brillanti, la buccia della frutta scintillante e gli alti alberi di cedro e quercia, ma nel colloquio che sostiene a Lagos per potervisi trasferire realizza con amarezza che il suo titolo di studio africano non vale nulla per insegnare nella «terra delle opportunità».

PER LE PROTAGONISTE dei successivi racconti, quelle che negli Stati Uniti ci sono arrivate, quell’America dove tutto è così organizzato, chiese, ospedali e banchi alimentari, non è capace di fornire soluzioni ai problemi che avevano tentato di lasciarsi alle spalle oltreoceano. Dopo anni, le madri immigrate schiacciano ancora gli ignami nel mortaio e sopportano gli abusi dei loro mariti, le liti coniugali e la violenza domestica, mentre le loro figlie tentano di affrancarsi da questi retaggi culturali, ma si ritrovano spesso sole proprio a causa della loro stessa istruzione ed emancipazione.
Con vero talento e grande immaginazione, la Okparanta ritrae una Nigeria vibrante, e coglie l’anima della sua gente, in patria e nella diaspora, sfumando una serie di storie rese con forza e intimità, richiamando lo spontaneo parallelo con la ben più nota Chimamanda Ngozi Adichie. A noi invece queste piccole vite quotidiane, sommesse eppur eroiche nei loro inattesi atti di sfida, ricordano le eroine di un’altra espatriata nigeriana, in questo caso verso la Gran Bretagna, l’intensa Jackie Kay di Why don’t you stop talking.