Dopo non poco tempo da quando ha fatto irruzione sulla scena della filosofia contemporanea, vogliamo considerare Peter Sloterdijk, settantunenne cattedratico a Karlsruhe e Vienna, tra i più rilevanti innovatori del pensiero contemporaneo, o un semplice intrattenitore culturale, dalla parola allusiva, funambolica, persino giullaresca? È il caso di vedere in lui uno stimolante filosofo della cultura, in grado di tener conto degli apporti dell’antropologia, delle scienze economiche, della biologia evolutiva, della teoria delle arti e dei media, oppure una sorta di singolare opportunista del pensiero, capace di vorticosi – e ciarlieri – slalom tra l’ovvio e l’inesprimibile, il già detto e l’inconfessabile? È piuttosto un lucido e propositivo critico della contemporaneità, dei suoi miti ambigui e del suo profilo enigmatico, o un nostalgico «passatista», cantore della tradizione, dell’ordine e della conservazione?

L’età dell’individualismo
La ricezione del pensiero di Sloterdijk è stata caratterizzata da una singolare incertezza. Alla fortuna dei suoi scritti – figli della frequentazione della fenomenologia, dell’heideggerismo, della French Theory e per certi versi anche della riflessione orientale – si sono regolarmente accompagnate sopracciglia alzate e diffidenti perplessità, ma anche, e altrettanto spesso, elogi entusiasti e il riconoscimento di una sua grande forza teorica e immaginativa.

Certamente, nel campo delle humanities, particolarmente negli ultimi vent’anni, l’accademismo universitario ha volentieri assunto vesti e posture anti-accademiche, con l’effetto di produrre una crescente difficoltà di valutazione del gradiente di scientificità di una ricerca, perché i suoi esiti possono facilmente risultare sfocati, soprattutto quando siano coperti – o resi evanescenti – dal ricorso alla tecnica ibrida della «narrazione concettuale» e al genere intrigante del «saggio-romanzo». Tecnica e genere di cui Sloterdijk è un praticante consumato, sin dall’acclamata Critica della ragion cinica (datata 1983) e dalla trilogia delle Sfere (dal 1998 al 2004).

Ora, l’edizione italiana di I figli impossibili della nuova era Sull’esperimento anti-genealogico dell’epoca moderna (traduzione, cura e introduzione di Francesco Clerici, Mimesis, pp. 416, € 28,00), uscito in tedesco nel 2014 presso l’influente Suhrkamp Verlag, è un’occasione per cogliere tanto le linee di forza, quanto le più incerte interpretazioni che Sloterdijk ha riservato ai compiti e alle urgenze della riflessione filosofica attuale. Godibile esito di una lunga sedimentazione di intuizioni, meditazioni, ricostruzioni storiche, il volume intreccia in effetti molti tra i temi favoriti dell’autore, offrendosi come ricapitolazione e insieme snodo chiave del suo itinerario intellettuale.

Le questioni elettive di Sloterdijk – l’archeologia della «globalizzazione», la critica della modernità, la radice illuministica del nichilismo, il superamento dell’umanesimo, l’impatto socio-psico-politico delle tecnologie antiche e nuove, il rapporto tra culture e natura umana – si dispongono attorno a un cuore problematico centrale, presentato come decisivo: la messa a fuoco storico-critica di quel processo per cui le filiazioni genealogiche e la trasmissione culturale sono diventate più labili. Il cardine del discorso sta nella descrizione della profonda problematicità che, nel corso della storia occidentale, ha sempre più caratterizzato le dinamiche intergenerazionali, il passaggio dai padri ai figli di tradizioni, gerarchie, valori. Problematicità che diviene pervasiva quando si giunge alla frattura rivoluzionaria della fine del XVIII secolo, poi alla scena otto-novecentesca, infine a questa attualità ormai arresa a un individualismo pressocché assoluto, che scioglie i soggetti – i figli «impossibili» del titolo – da ogni vincolo nei confronti di ascendenti e discendenti.

onsegnandoli non solo a una infelice concorrenzialità con i soli contemporanei, ma anche a una attitudine rivendicativa sempre riproposta e però sempre più vuota, inattendibile, marcata com’è da evasioni verso un futuro che altro non è se non un eterno, sradicato presente, privo di qualsiasi durata.
Benche Sloterdijk presenti questi problemi come ancora poco approfonditi, e dunque meritevoli di una rinnovata attenzione, la sua indagine non sembra aggiungere poi molto né alle acquisizioni socio-antropologiche offerte a suo tempo dal Tocqueville acutissimo interprete delle dinamiche «orizzontali» proprie alla democrazia di massa, né alle prospettive aperte da Pierre Legendre con la sua ottica giuridico-psicoanalitica ai temi storico-culturali, sociali, politici della trasmissione e della filiazione.

on avrebbe torto, perciò, chi preferisse rileggere questi autori piuttosto che affidarsi alle ricostruzioni del saggista tedesco. Tanto più che, pur evocando innumerevoli protagonisti del pensiero (Socrate, Agostino, Nietzsche, Stirner, Marx, Deleuze fra gli altri), della letteratura (Virgilio, Balzac, Ball, Shakespeare), della storia occidentali (Gesù, Francesco d’Assisi, Napoleone, Lenin, Hitler), Sloterdijk raramente si impegna in un confronto reale con la lettera di testi e documenti – e con le interpretazioni che ne sono state offerte – preferendo il registro dell’enunciazione a quello di una vera discussione teorica (è il caso ad esempio della pur protratta analisi del messaggio cristiano, con l’accentuazione, non priva di unilateralità, dell’elemento elitista e antigenealogico, piuttosto che di quello universalista e critico).

Virtù del pragmatismo
Sul piano metodologico, il punto è che Sloterdijk tende a mettere la sagacia delle proprie analisi al servizio della valutazione polemica di esperienze storiche e intellettuali alle quali sottrae, intanto, complessità e intima polivalenza, concedendosi perciò dei bersagli banalizzati. Paradigmatico è il trattamento riservato alla cultura illuminista, caricaturalmente schiacciata sul tratto di un «rischiaramento» che misconosce la tradizione, sull’astrattezza dei principi di libertà e uguaglianza o sul desiderio di soppressione dell’ombra e dell’avversario. Gesto intellettuale difficilmente accoglibile, dopo il lavoro critico di studiosi come Bronislaw Baczko e Jean Starobinski, ben altrimenti capaci di restituire all’esperienza settecentesca la sua multiforme ricchezza, la possibilità di riconoscere la resistenza dell’oscuro, il tentativo di istituire inedite e durature tradizioni, la coscienza dell’incertezza del progetto socio-politico proposto.

Se non mancano dunque ragioni per accogliere senza eccessivo trasporto la pur interessante proposta ermeneutica di Sloterdijk, non è tuttavia inutile – a fronte dei tanti adepti del nuovo per il nuovo, ai tanti conformisti del non-conformismo, agli innumerevoli professionisti della fuga in avanti (soprattutto in campo socio-economico e politico) – ascoltare anche la voce di questo filosofo che, a conti fatti, domanda soprattutto questo: che le nostre potenziali invenzioni per far fronte alla temibile problematicità della scena globale siano caratterizzate da solidità e pragmatismo. E che, proponendosi come durevoli, siano in grado di promuovere una effettiva «cura della totalità», incoraggiando forme di perseveranza che sappiano restituire un vero volto al nostro comune futuro.