La parola gender, oggi, è nell’occhio di un ciclone di fraintendimenti e becere strumentalizzazioni. Ma quando ancora uno strisciante pensiero da sentinelle in piedi non la associava alla distruzione del mondo come lo conosciamo, il Gender DocuFilm Fest già si interrogava su questa parola e ciò che definiva.
Sei anni fa, quando Imma Battaglia e Giona Nazzaro, il direttore artistico, discutevano della nascita dell’evento ospitato dal Gay Village di Roma hanno pensato che serviva «una parola polisemica aperta, che potesse includere non solo quante più realtà possibile, ma che indicasse anche un mondo in continua evoluzione ed in continuo processo di auto-definizione. Non avremmo mai pensato che oggi il termine gender potesse diventare quasi un’ offesa, per cui sui giornali di destra si legge ’la minaccia del gender’›».

 
Giunto alla sua sesta edizione, quest’anno il Festival iniziato il 27 agosto e che si concluderà stasera ha avuto un taglio che Nazzaro definisce «soprattutto politico, proprio per far fronte a questo tipo di emergenza». Il film di apertura è stato Amara della regista salentina Claudia Mollese, intitolato alla leader della comunità trans del quartiere storico di Lecce, Mara detta appunto Amara in quanto personaggio dalle molte ombre. Quando è morta, le sono stati rifiutati i funerali nel Duomo, ma il suo incredibile patrimonio – si dice di oltre 70 appartamenti – è stato di buon grado accettato dal convento San Giovanni Evangelista delle suore di clausura a cui lei lo aveva devoluto. «Provocando così – racconta il direttore – un cambiamento radicale nella demografica del quartiere ed avviando una gentrificazione che ha allontanato gli immigrati ed operato una selezione di classe anche tra le persone che esercitavano ‹la vita›. Mi sembrava interessante avere questo film in apertura: racconta le ambiguità di una città barocca come Lecce e di un clero che ha i suoi falsi segreti alla luce del sole».

 
Il 27 è stato proiettato anche Hello Stranger dello svizzero Thomas Ammann, che documenta le sue personali difficoltà in quanto omosessuale che vuole sposare il proprio compagno ma anche avere delle esperienze con delle donne, e si scontra così con una serie di chiusure: «quella del mondo gay – dice Nazzaro – che a fronte di conquiste difficilissime come il matrimonio vorrebbe conservare questa cosa in un alveo protetto, e quella della famiglia tradizionale, che non vuole che il protagonista sposi il suo compagno».

 
Delle questioni complesse, articolate e mutevoli, come vuole l’idea stessa al cuore del Festival. Spiega infatti il direttore artistico che tutto è iniziato quando, discutendo con la co-fondatrice Imma Battaglia, si è deciso di andare oltre le tematiche strettamente omosessuali, di «tentare di allargare lo spettro alla problematiche inerenti al gender, tenere aperti gli occhi non solo su ciò che accade in termini di studi e filosofia del tema, ma anche rispetto alla diversificazione delle identità sessuali».

 
Da questo punto di vista, il Gay Village offriva, in quanto «realtà composita ed aperta», un’ambientazione perfetta.
L’obiettivo insomma è «provare a smuovere il discorso: è vero che adesso, soprattutto nel mondo dello spettacolo, la discriminazione si è abbassata molto, ma rimane ancora altissima nel resto della società».ù

 
Un discorso spesso scottante anche tra gli stessi frequentatori del Festival in più di un caso dei film ha acceso degli animati dibattiti.

Nel 2011 Le ciel en bataille di Bruno Ulmer – «una lettera aperta al padre morto in cui da omosessuale racconta la sua conversione all’Islam» – è stato molto amato ma anche contestato. Come pure Gli uomini invisibili dell’israeliano Yariv Mozer, che segue degli omosessuali palestinesi nella loro fuga dai territori controllati dall’Olp e da Hamas perché a rischio di essere uccisi dai propri stessi familiari. Passati nei territori israeliani, delle associazioni LGBT li accolgono infrangendo le leggi del proprio paese sull’accoglienza dei profughi. Quella sera, sono venuti al Festival, per la prima e unica volta, dei ragazzi arabi, che hanno discusso animatamente anche durante il film.
Oggi, in chiusura, Lei disse si di Mara Pecchioli, film on the road su una ragazza di Firenze che va in Svezia a sposare la sua compagna perché in Italia  il diritto all’autodeterminazione delle proprie scelte sessuali ancora non esiste. Gli organizzatori però volevano concludere su una nota ottimista: se il paese in cui vivi non viene incontro alle tue esigenze di legittima felicità, ce ne sono altri che lo faranno.
Per chi stigmatizza la parola gender, i curatori  sono ben contenti di rappresentare una minaccia: «quella del dialogo, della possibilità di incontrarsi e di cambiare idea, di confrontarsi con l’altro da te e di scoprire mondi nuovi».