È in errore chi parla di «ritorno della calma», intendendo la fine delle manifestazioni di protesta palestinesi, lungo le linee di demarcazione tra la Striscia Gaza e Israele dopo quasi otto mesi, in cui sono stati uccisi dallo Stato ebraico oltre 200 palestinesi (ucciso anche un militare israeliano) e circa 20 mila sono stati feriti da proiettili o sono stati intossicati dai gas lacrimogeni. Due giorni fa alcune migliaia di persone si sono radunate nei campi di tende allestiti la scorsa primavera dall’Alto Comitato contro l’assedio di Gaza di cui fanno parte i rappresentanti di tutti i partiti politici palestinesi e di alcune associazioni umanitarie. Decine di manifestanti sono stati feriti e tra questi non pochi dai tiri dei cecchini piazzati sulle dune dall’altra parte delle barriere. La protesta contro il blocco israeliano di Gaza perciò va avanti. Ma per la prima volta dal 30 marzo, giorno di inizio della Grande Marcia del Ritorno, è apparsa molto più contenuta e meno partecipata rispetto al passato. Ai manifestanti è stato detto di rimanere a distanza dalle barriere e solo gruppetti di giovani si sono avvicinati alle postazioni dei militari israeliani. Ad osservare quanto accadeva c’era anche una delegazione egiziana chiamata a verificare il rispetto dell’accordo raggiunto a metà settimana dalle principali formazioni palestinesi, il movimento islamico Hamas in testa, per dare tempo alle mediazioni in corso da parte del Cairo e delle Nazioni unite di giungere al cessate il fuoco di lunga durata con Israele di cui si parla da mesi. In cambio di un allentamento del blocco, Hamas è o sarebbe pronto a contenere le manifestazioni popolare. Almeno questo è ciò che trapela dai negoziatori.

È quasi superfluo ricordare che è Hamas, in controllo completo di Gaza dal 2007, è la forza propellente delle manifestazioni della Grande Marcia del Ritorno. Il movimento islamico può intensificare o rallentare le proteste. Dipende da quanto appaia a portata di mano l’intesa con Israele. E minaccia di dare nuovo slancio alle proteste se la diplomazia guidata dall’Egitto fallisse. «Stiamo favorendo gli sforzi diplomatici e testando il comportamento dell’occupazione (israeliana)», spiega Khalil al Hayya, il numero due di Hamas a Gaza, «Se non cesserà l’assedio al più presto – avverte – (Israele) vedrà in inverno quello che non ha visto in estate». Parole che sottintendono la capacità del suo movimento di tenere, con i razzi, sotto tiro Israele. Da parte sua lo Stato ebraico non esita a bombardare Gaza e minaccia di lanciare una vasta operazione militare se non termineranno l’attrito lungo le barriere orientali e le altre manifestazioni della Marcia del Ritorno, a cominciare dal lancio di palloni incendiari.

«Hamas fa affidamento sulla forza per negoziare risultati a breve termine evitando concessioni politiche o ideologiche» afferma Tareq Baconi, uno studioso del movimento islamico, ricordando che la situazione umanitaria a Gaza si fa sempre più grave e la popolazione, stretta nella morsa di Israele, chiede con forza un cambiamento. Israele però non cambia la sua strategia, «la calma per la calma», spiega Baconi, ossia nessuna vera concessione sul blocco di Gaza ma fine degli attacchi aerei se Hamas farà altrettanto fermando i lanci di razzi. Israele, aggiunge lo studioso, «si è assicurato una situazione in cui può mantenere indefinitamente la sua presa sui territori palestinesi senza doversi occupare delle questioni politiche alla base di tale controllo». Se l’accordo si farà non sarà certo alle condizioni di Hamas. La tregua darà respiro alla popolazione di Gaza ormai esausta, ma allo stesso tempo manterrà lo status quo ed è quello che vuole Israele.