«Subiamo attacchi continui da parte delle forze israeliane. Il mondo deve intervenire, non facciamo nulla di male, curiamo le persone ferite». Così scriveva qualche giorno fa sui social Razan al Najjar, 21 anni, denunciando il fuoco dei tiratori scelti sul personale sanitario (e i giornalisti) durante i venerdì della Grande Marcia del Ritorno. Il pericolo non l’aveva mai spinta a rimanere indietro. Razan per 10 settimane è stata in prima linea per dare i primi soccorsi ai feriti, indossando il suo camice bianco e il giubbotto dei paramedici.

«IL COMPITO DI SOCCORRERE i feriti non è solo degli uomini, anche le donne possono svolgerlo al meglio» aveva detto al New York Times. Due giorni fa, a est di Khan Yunis, la 21enne è stata uccisa dal fuoco di un cecchino. «Razan ed io eravamo insieme, il fumo sprigionato dai candelotti lacrimogeni toglieva il fiato ma c’erano dei feriti verso le barriere (con Israele) e volevamo soccorrerli. Quando ci siamo diretti verso di loro gli israeliani ci fanno sparato contro all’improvviso. Razan è caduta e ho visto una macchia di sangue allargarsi rapidamente su tutto il suo giubotto» ricorda Reda, un’altra paramedica.

L’esercito israeliano fa sapere che sta «indagando sull’accaduto» e che casi come questo «sono esaminati attentamente» da un comitato militare interno. Ma a Gaza nessuno crede che sarà preso alcun provvedimento punitivo nei confronti di chi ha sparato. Di solito i comandi militari spiegano che sono state seguite tutte «le regole d’ingaggio» e comunque, lo ripetono anche i centri israeliani per i diritti umani israeliani, sono rarissimi i casi di rinvio a giudizio per i soldati accusati di aver sparato deliberatamente contro i palestinesi, tutti gli altri sono archiviati.

GAZA, scriveva ieri qualcuno, si sta trasformando in un enorme cimitero. Le uccisioni di palestinesi sono quasi quotidiane e non ci riferiamo solo a quelli, almeno 120, della Grande Marcia del Ritorno. I feriti negli ultimi due mesi sono stati 13mila, tra intossicati dai gas lacrimogeni e quelli colpiti da proiettili veri. Nel triste elenco delle vittime qualche nome genera più dolore, rabbia, frustrazione. Uno è quello di Razan al Najjar, ormai simbolo della lotta della popolare contro il blocco israeliano di Gaza. Ieri migliaia di abitanti di Khan Yunis hanno accompagnato la ragazza nel suo ultimo viaggio, tra due ali di folla e con centinaia di persone affacciate alle finestre a salutarla e a pregare per lei. In prima fila dietro la salma avvolta nella bandiera palestinese i colleghi della ragazza.

«IL MIO ANGELO ora si trova in un posto migliore. Mi mancherai tanto. Possa la tua anima riposare in pace mia bellissima figlia», ripeteva ieri tra le lacrime Sabreen, la madre della giovane uccisa, mostrando il giubbotto intriso di sangue della figlia. Razan al Najjar è il secondo paramedico palestinese a essere ucciso da quando sono iniziate le proteste del venerdì lungo le linee tra Gaza e Israele. Il primo, Musa Abu Hassanein, è stato ucciso due settimane fa. Il ministero della salute di Gaza, riferisce che 223 paramedici sono stati feriti durante le manifestazioni e che le forze israeliane hanno preso di mira 37 ambulanze. L’inviato delle Nazioni unite in Medioriente, Nickolay Mladenov, ha ribadito in un tweet che «gli operatori medici non sono un obiettivo». E la Palestinian Medical Relief Society ricorda che altri tre operatori sono stati feriti dai proiettili: «Sparare contro il personale medico è un crimine di guerra secondo le convenzioni di Ginevra. Occorre una immediata risposta internazionale». Risposta che è morta prima ancora di nascere per la decisione degli Stati uniti di porre veto su un progetto di risoluzione all’Onu che reclamava la protezione dei palestinesi a Gaza e nella Cisgiordania occupata.

WASHINGTON DA PARTE SUA ha provato, senza successo, a far passare una bozza di risoluzione che attribuiva al movimento islamico Hamas la responsabilità completa di quanto accade a Gaza da due mesi. Ieri infine è stato ucciso un palestinese che, secondo il portavoce militare, avrebbe cercato di investire con la sua automobile nei pressi di Hebron.