«Ci sono dei trasformatori che sono stati completamente distrutti (dagli attacchi aerei) e i nostri operai fanno il possibile per riparare la rete elettrica. Comunque il problema principale resta il gasolio industriale, non ne abbiamo abbastanza per far funzionare a pieno regime la centrale». Dagli studi di Shaab Radio ieri l’ingegnere Mohammed Thabet ha spiegato alcuni dei tanti problemi che la Gedco, compagnia dell’elettricità di Gaza, affronta ogni giorno per distribuire quanta più energia possibile alla popolazione. Poca, 3-4 ore al giorno. E mai come in questo momento ne serve tanta a Gaza per riparare i danni alle infrastrutture, tenere accesi i depuratori delle acque reflue e aiutare gli ospedali a conservare le scorte di combustile per i generatori autonomi. L’elenco delle priorità è lungo e chi lo scorre lo accompagna alla parola «Ricostruzione», la più pronunciata nel dopo escalation tra Israele e Hamas. Ma anche questa volta la ricostruzione, come è avvenuto dopo le altre grandi offensive militari israeliane contro Gaza – 2008, 2012, 2014 – appartiene solo al mondo delle idee. I paesi più ricchi promettono fondi sapendo che non li verseranno. Vorrebbero che Hamas sparisse all’improvviso ma il movimento islamico è sempre lì, al comando di Gaza. E tutto resta fermo.

Nel 2009 nei mesi successivi alla prima guerra israeliana a Gaza («Piombo fuso»), i donatori internazionali si impegnarono per 4,5 miliardi di dollari a sostegno dell’economia palestinese e per la ricostruzione della Striscia. Non se ne fece quasi nulla. Nell’ottobre 2014, qualche mese dopo la fine dell’offensiva «Margine protettivo», gli stessi donatori internazionali si dichiararono pronti a rendere disponibili 5,4 miliardi di dollari. Tre anni dopo solo 194 milioni di dollari di quella promessa miliardaria sono stati erogati e i palestinesi hanno ricostruito da soli ciò che hanno potuto. Le stesse condizioni riemergono ora. I donatori non si sentono tutelati da un cessate il fuoco non vincolante, trovano arduo intervenire mentre i palestinesi sono divisi e governati da due partiti rivali (Fatah e Hamas) e, più di tutto, non osano ignorare il divieto di Israele alla cooperazione con funzionari del movimento islamico nei progetti per la ricostruzione. Israele da anni limita l’ingresso a Gaza dei materiali per la ricostruzione poiché, sostiene, verrebbero usati da Hamas per costruire gallerie sotterranee. Un rapporto dell’Undp afferma che nel 2017 dei 602 milioni di dollari stanziati per rivitalizzare il settore produttivo a Gaza, solo 16 milioni di dollari sono stati spesi a causa delle condizioni molto rigide poste da Israele.

Sullo sfondo del «dopo-guerra» c’è l’emergenza Covid, dimenticata anche se della pandemia a Gaza si è parlato durante i giorni dei raid israeliani per i danni subiti dal centro sanitario Hala al-Shawa, sito di vaccinazione e principale laboratorio per l’esame dei tamponi, l’uccisione per una bomba del dottor Ayman Abu Alouf, responsabile per le misure anti Covid nella Striscia. Eppure, il coronavirus continua a circolare nei Territori palestinesi occupati. E mentre in Cisgiordania da un mese a questa parte si registrano meno casi positivi e pochi decessi, a Gaza invece c’è stato un boom di contagi poco prima dell’escalation militare che aveva riempito le poche unità di terapia intensiva disponibili negli ospedali. I raid aerei hanno costretto la popolazione ad abbandonare il distanziamento sociale e le autorità sanitarie di Gaza nei giorni scorsi avevano previsto una impennata di contagi che si è puntualmente verificata. Dei palestinesi che sono risultati positivi nell’ultima settimana, l’84% si trova Gaza e il 16% in Cisgiordania. L’Organizzazione mondiale della sanità fissa il tasso di positività di Gaza al 25% rispetto al 5% della Cisgiordania. La mortalità è salita al 3,4%.

I vaccini erano e restano un sogno anche se comincia ad arrivare qualche fiala in più rispetto ai mesi scorsi. Nei giorni scorsi l’Unicef ha consegnato 9.600 dosi del vaccino di AstraZeneca a Gaza e la settimana prima erano entrate nella Striscia 20.000 dosi di Sinopharm insieme a 46.800 di Pfizer. 486.900 dosi di vaccini sono state spedite in Cisgiordania e 196.500 a Gaza, oltre 300.000 abitanti della Cisgiordania sono stati vaccinati ma solo 39.937 a Gaza. In totale appena il 7% dei palestinesi è stato vaccinato. In Israele circa il 60% dei 9,3 milioni di abitanti hanno ricevuto le due dosi.